Foto di copertina di Gregory Bull
Ilya Burov e Oleksander Abramenko nascono a distanza di tre anni sotto la stessa bandiera, quella dell’Unione Sovietica. Un mese dopo la nascita di Burov, di Unione Sovietica non ve ne sarà più traccia e le loro cittadinanze si divideranno: russo il primo e ucraino il secondo.
Dopo 31 anni dalla fine del Patto di Varsavia, i rapporti tra Russia e Ucraina restano tesi e, proprio in queste prime settimane del 2022, le tensioni si sono riaccese.
Burov e Abramenko partono per Pechino lasciandosi alle spalle due paesi profonda mente vulnerabili e in latente conflitto tra loro.
Abramenko e Burov: un abbraccio che rimarrà nella storia
È il 16 febbraio e sulle piste del Genting Snow Park nella Zhangjiakou Zone, Oleksander Abramenko tenta di difendere il titolo olimpico nel freestyle maschile ottenuto nelle Olimpiadi di Pyeongchang 2018, quando Burov si era classificato terzo dietro al cinese Zongyang. Durante la premiazione di Pyeongchang, Burov si era lasciato avvolgere dalla bandiera ucraina mentre Abramenko lo ospitava sul gradino più alto del podio.

Un’amicizia, quella tra i due atleti, che si ripresenta anche a Pechino. A distanza di quattro anni, il podio della gara di freestyle torna a colorarsi degli stessi colori: a vincere, in questa edizione dei Giochi, è Guangpu per la Cina, seguito da Abramenko e Burov. Appena i due scoprono di condividere nuovamente il podio olimpico, Burov stringe l’avversario in un abbraccio. L’immagine è simile a quella di quattro anni fa, ma carica questa volta di un significato che va al di là di un semplice abbraccio, date le tensioni tra i due paesi. La foto scattata da Gregory Bull rimarrà nella storia, volta a simboleggiare che la guerra non può arrivare ovunque e che lo sport resta un terreno dove, prima della politica, domina l’agonismo e la determinazione a essere il più veloce.
Heraskevych: No alla guerra in Ucraina
L’abbraccio tra Burov e Abramenko non è stato l’unico gesto che ha portato l’attenzione sulla situazione russo-ucraina durante i Giochi appena conclusi.
È venerdì 11 febbraio quando, al termine del terzo run di skeleton maschile, Vladyslav Heraskevych mostra, davanti alle telecamere, un cartello che recita: “No alla guerra in Ucraina“.

Ma se l’abbraccio tra Burov e Abramenko non era esplicitamente un gesto politico, non possiamo dire lo stesso di quanto fatto da Heraskevych.
La regola 50 dello statuto del Comitato Olimpico Internazionale, infatti, recita: “Nessun tipo di manifestazione o propaganda politica, religiosa o razziale è consentito in alcun sito, sede o altra area olimpica“. Heraskevych, come hanno fatto trapelare alcuni esperti del CIO, non è però stato sanzionato.
Sport e politica sono davvero così lontani?
Quelle di Pechino 2022 non sono state le prime Olimpiadi in cui la politica è entrata nello sport.
Se nel 1936 i Giochi furono ambientati in una Berlino antisemita, in quelli del 1968 Smith e Carlos, durante la premiazione dei 200 m di atletica, protestarono contro la segregazione razziale negli Stati Uniti. Nel 1972, durante i cosiddetti “The Happy Games” di Monaco, si assistette a un vero e proprio massacro, attuato da un commando di terroristi palestinesi, durante il quale persero la vita nove atleti israeliani presi in ostaggio e due atleti uccisi per aver opposto resistenza nel villaggio olimpico.
Non possiamo pensare ai Giochi Olimpici senza contestualizzarli nel periodo socio-politico che il Mondo sta affrontando in quel preciso momento. Si tratta di quindici giorni, ogni due anni, in cui la Storia continua a essere scritta, anche tenendo conto di quanto succede nei campi di gara.
Gaia Bertolino