Per una cultura senza (più) confini

Mi è capitato, ultimamente, di sentire una nota intellettuale sostenere che la cultura si acquisisce passando un certo numero di ore a leggere. Non voglio, qui, proporvi una sterile polemica, ma una serie di riflessioni su questo tema.

Per cominciare va detto, come ricorda Lino Pertile, che Dante era caduto nel dimenticatoio nei primi del Novecento, vittima delle battaglie dei Futuristi contro il passatismo della cultura italiana, e fu recuperato dal nuovo movimento fascista. Mussolini lo citava come elemento di eroica continuità tra il Risorgimento e il nascente fascismo. Si può notare, quindi, quanto la cultura possa effettivamente passare dai libri, ma anche quanto tale cultura non assicuri l’acquisizione di valori oggi considerati fondamentali per una società giusta, come il rispetto dei diritti umani, della libertà e della democrazia. Mi domando, allora, è questa la cultura che vogliamo? Forse leggere libri non basta.

Passiamo, poi, al caso opposto, quello di chi possiede una cultura che non passa dalla lettura, una cultura che ha caratterizzato e caratterizza fasce di popolazione anche analfabete, ma non per questo una cultura minore. Basti pensare a un’esperienza che molti di noi avranno fatto quotidianamente: le nonne italiane che conoscono, perfettamente e a memoria, ricette della tradizione italiana, senza averle mai lette da un ricettario. Si tratta di un sapere che viene tramandato di generazione in generazione e che fa parte della ricchezza culturale italiana. Tra le varie manifestazioni della nostra cultura, peraltro, quella culinaria è tra le più riconosciute e apprezzate in tutto il mondo. Secondo un report dell’Agenzia Nazionale del Turismo, risalente al 2018, un turista su quattro visita l’Italia proprio per motivi enogastronomici.

Tra le varie manifestazioni di cultura tradizionale, trasmessa attraverso le generazioni, si possono poi citare le pratiche di allevamento degli animali, quelli di tessitura, di irrigazione dei campi e numerose altre. La stessa istituzione Unesco propone il riconoscimento di alcune di queste come Patrimonio culturale immateriale: ad esempio, per tornare alla cucina, la dieta mediterranea. Inoltre, alcune pratiche che, invece, consideriamo come “naturali” non lo sono, ma sono il prodotto di una specifica cultura, come nel caso dell’educazione dei figli. Quante volte ci siamo sentiti dire che un bambino ha “naturalmente” bisogno di un padre e di una madre? Eppure, anche senza andare a scomodare chissà quali civiltà esotiche, fino a pochi anni fa nelle nostre campagne le famiglie allargate vivevano in una stessa grande cascina, e i bambini crescevano, insieme a fratelli e cugini, con zii, zie, nonni, nonne e via dicendo.

Questo esempio avvicina a una visione della cultura non monolitica e verticale, bensì orizzontale e molteplice. È una visione che, del resto, si accompagna bene alle rivendicazioni di un movimento così importante e rivoluzionario per la nostra società, come quello LGBTQIA+, che ha fatto della diversità e dell’inclusione il suo punto di forza. Siamo tutti diversi e tutti valiamo allo stesso modo; propongo di applicare lo stesso alla valutazione dei diversi tipi di culture, mettendo da parte la pratica snobistica, e purtroppo consolidata, della gerarchizzazione dei saperi. Si tratta di un cambio di paradigma che cercarono di portare avanti già Deleuze e Guattari, secondo i quali una cultura che prende la forma di un albero impone una gerarchia tra l’alto e il basso – identificando certi saperi come di serie B – e, inoltre, può crescere solo all’interno di un perimetro circoscritto. Un sapere in forma di rizoma, di radice, che cresce all’infinito in orizzontale, invece, non ha confini e non ha gerarchie, è un sapere che invita allo scambio e all’arricchimento vicendevole tra culture diverse.

Per effettuare questo cambiamento di mentalità, può venirci in aiuto una scienza sociale come l’antropologia, per la quale, usando le parole di Carolina Bodoni – antropologa culturale che crea contenuti molto interessanti sul suo profilo Instagram (@carol.oide) – sono ugualmente oggetto di studio l’artista Michelangelo e il suo omonimo componente delle Tartarughe Ninja.

Un’ultima riflessione importante, a mio avviso, è quella sulla classe. Oggi, la classe intellettuale dovrebbe maggiormente tener conto del punto privilegiato a partire dal quale osserva e interpreta il mondo, per poi comunicarlo al pubblico. L’invito a leggere più libri per avere una maggiore cultura potrebbe – e anche giustamente – essere percepito come offensivo da parte di chi, a causa della sua posizione socio-economica, è costretto a lavorare per dieci o più ore al giorno per poter sopravvivere dignitosamente. Tutto questo sforzo, mentale e fisico, porta in molti casi a depressione e dolori cronici, non proprio le condizioni ottimali per decidere di investire il proprio tempo libero nella lettura dell’ultimo libro di Saviano.

Fonte immagine in evidenza: https://www.cultureamp.com/culture-first-global

Giulia Menzio

2 commenti Aggiungi il tuo

  1. Paola Stella ha detto:

    Condivisibile l’auspicio di una cultura che prescinda dalle accademie, e si fondi sull’essere umano e sulla sua unicita’, la quale richiama l’arricchimento dello scambio dei punti di vista e delle idee personali.
    L’importante e’ che non si riduca tutto agli orientamenti sessuali, che per loro privatezza non dovrebbero necessitare di permessi altrui. Buon proseguimento!

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    1. Giulia Menzio ha detto:

      Il riferimento agli orientamenti sessuali era solo un modo per evidenziare come, giustamente, nella nostra epoca stiamo accettando sempre di più la diversità e, quindi, dovremmo dimostrare la stessa apertura mentale nell’approcciarci alla cultura. Le diverse culture e i diversi orientamenti sessuali, allo stesso modo, non necessitano permessi per la loro esistenza (;

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