Artivismo e migrazione: quando i migranti eravamo noi (pt. I)

Con il termine artivismo, nato dalla comunione delle parole “arte” e “attivismo”, ci si vuole riferire alla funzione sociale della letteratura e dell’arte. Spesso si tratta di narrazioni che tentano di incidere potentemente e concretamente sulla realtà. In questo caso parliamo del fenomeno migratorio.

La migrazione è sempre esistita

Fin da quando esiste, in virtù della sua specie, l’essere umano è sempre stato abituato a spostarsi. La sedentarietà, che porta alla nascita della civiltà, è un dato importante per l’evoluzione del nostro essere e delle sue potenzialità, ma di fronte al pericolo o al bisogno l’uomo non è mai venuto meno al nomadismo. Questo perché muoversi fa parte del suo spirito di sopravvivenza. Oggi, in parallelo allo sviluppo dei mezzi di trasporto, paradossalmente spostarsi è diventato socialmente difficile: nella società odierna entrano in gioco parole quali diritti, cittadinanza, passaporto, permessi di soggiorno oltre a lingue e culture diverse. Perché sembra così difficile accogliere e accettare l’altro? Non è a questa domanda che il presente articolo vuole rispondere, ammesso anche solo che si possa. L’articolo, a cui seguiranno una seconda e una terza parte, vuole piuttosto dare risonanza al ruolo che l’arte e la letteratura possono assumere di fronte a queste realtà.

Quando i migranti eravamo noi

Negli articoli che seguiranno questo parleremo delle vittime del Mediterraneo e della Frontera Norte. Per generare empatia, prima, uno dei pensieri più efficaci è immaginarsi nella medesima situazione. Da qui nasce il focus di questa prima parte: quando i migranti eravamo noi. La Storia ci insegna che anche noi europei, noi italiani in primis, siamo stati migranti non ben voluti, con la necessità di partire, in cerca di lavoro, senza garanzie e magari con una sola valigia di cartone in mano. Apparivamo sporchi, poco affidabili e culturalmente tanto diversi.

Molti europei a fine Ottocento si accalcavano nei porti di Genova e Londra, luoghi privilegiati per salpare. I giornali dell’epoca lo definivano “esodo biblico“: non si trattava di nulla di diverso che navi con stipati i corpi migranti. All’epoca le classi di navigazione erano tre. La prima classe ben rappresentata nelle scene del Titanic, film vincitore di numerosi premi Oscar, era occupata dagli immensamente ricchi. Seguivano una seconda e una terza. A quest’ultima erano riservati gli spazi sotto il livello del mare, in camere immense dove convivevano migliaia di individui. Le condizioni di vita di queste persone erano precarie: c’erano malattie come il tracoma (portatore di cecità), infezioni, scarsità di cibo e acqua non potabile. Il viaggio poteva durare dai quindici giorni a un mese. Non erano pochi i naufragi.

In Italia a raccontare l’emigrazione di quel periodo c’è un solo grande romanzo, quello di Edmondo De Amicis, noto soprattutto per essere stato la penna di Cuore. In questo caso non parliamo di artivismo: De Amicis documenta ciò che vede ma senza spirito di denuncia e senza l’intento di scaturire una riflessione in termini sociali nel lettore. Lo si cita in questo articolo proprio per la sua unicità di esemplare che tratta questo argomento. Il fatto che ci sia un solo libro a parlarci di questa condizione d’altronde è di per sé significativo. All’epoca De Amicis era autore famoso che spesso veniva invitato in Argentina in occasione di incontri e conferenze. Lo scrittore sedeva in prima classe e durante i suoi viaggi teneva una sorta di libro-diario chiamato “Sull’oceano” pubblicato nel 1889: qui De Amicis dall’alto della prima classe osserva e racconta l’umanità disgraziata e affamata che erano i migranti della terza classe. È un racconto ideologicamente non contemporaneo: il suo sguardo è pietoso e non solidale. Egli guarda a questa gente con un po’ di ribrezzo: questi poveri non sono lui, è l’altra Italia a lui sconosciuta e che a lui fa paura perché la miseria non piace e spaventa.

Come oggi, anche sui corpi migranti europei si speculava molto e in maniera legale per giunta. La gestione della migrazione, infatti, era affidata alle grandi compagnie marittime che attraversavano gli oceani. Le compagnie europee grazie al guadagno trans-migratorio diventano le padrone del mare, grandi attori del mercato. Una volta attraccati i milioni di corpi subivano un processo di selezione. Negli Stati Uniti, in particolare, c’era una frontiera, Ellis Island, dove a seguito di un “esame” venivano ricacciati coloro che erano malati. Ancora prima, in Argentina, l’Hotel dei migrantes a Buenos Aires stipava i corpi e ne esaminava le generalità. Le condizioni iniziarono a migliorare solo negli anni Quaranta del Novecento a seguito dell’intervento del Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna.

Immagini potenti di questa realtà storica sono le numerose fotografie scattate in quel periodo. Il migrante e la valigia cattura fedelmente la situazione dell’epoca: una schiera di persone in fila  alla stazione, che portano con sé una valigia di cartone (oggetto simbolo anche delle migrazioni dal sud al nord Italia degli anni Sessanta) e dei fagotti coi propri averi. Indossano abiti tradizionali: le donne portano dei fazzoletti in testa, indumenti diversi da quelli degli abitanti autoctoni che subito fanno percepire l’estraneità. Ciò che questi scatti, di cui si propone un esempio, vogliono immortalare è la condizione umana dei migranti: una lunga coda di esseri con i propri averi, solo le cose necessarie e le più importanti, racchiusi in uno spazio limitato che rappresenta se stessi e il ricordo delle proprie casa e terra.

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Nicole Zunino

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