Creativa, visionaria e geniale: 50 anni di carriera di Franca Dorato – parte seconda

  • Se dovesse interpretare un solo personaggio per il resto della sua vita, chi sceglierebbe?

Che domanda difficile, perché ognuno mi ha lasciato qualcosa. Poggio il piede sull’esperienza che ho avuto con un certo personaggio, mi elevo e riesco a vedere meglio il resto. Negli anni ’70 ho fatto Copione. La rivoluzione è finita di Saito. Era il racconto di una casa di riposo per artisti anziani, dove ognuno tirava fuori dei semi di quello che era stato in gioventù. Interpretare una persona di settant’anni è stato un “lavorone” perché ero una giovane ventenne con nessun tipo di esperienza con gli anziani, se non i nonni. Mi ha dato modo di capire le fragilità, la bellezza e la prospettiva dell’anziano rispetto alla vita. Ora lo rifarei!

  • Che cosa risponderebbe a chi dice che occuparsi di danza e teatro non è un vero lavoro?

Gli direi che dovrebbe fare un’esperienza su questi due lavori e che parla senza sapere che cosa sta dicendo.

  • Come mai ha scelto di dedicarsi alla recitazione teatrale e non a quella cinematografica?

Per me la parola, rispetto alla pantomima, era mentitrice, perché potevi dire una cosa e pensarne un’altra. Possiamo vedere la stessa cosa tra l’arte cinematografica e l’arte teatrale. A teatro la recitazione è unica e vera, in cinematografia è forgiata da quello che il regista vuole raccontare attraverso un’immagine e una musica. Sullo schermo l’interpretazione dell’attore c’è, però è mediata. Invece, sul palcoscenico il lavoro è diretto: ci sono io e ci sei tu, il pubblico. Se avessi dovuto fare qualcosa nel cinema, sarei stata una regista. Non starei davanti a una camera, ma dietro. Le mie regie cinematografiche sarebbero state molto asciutte, con pochi ciak, forse più sperimentali.

  • Chi è il suo attore preferito? Un attore che non le piace?

Uno che mi ha proprio ammaliata per il suo rigore e per la sua gentilezza è Dustin Hoffmann. In Tootsie è strepitoso il suo uso del corpo maschile tradotto in movenze femminili. Altri che amo sono Robin Williams, Sean Connery, Vittorio Gassmann e Pier Francesco Favino. Di attrici la meravigliosa Mariangela Melato, che ho conosciuto.
Non mi piacciono quelli che ostentano la loro corporeità e mettono poca arte della recitazione, ce ne sarebbero parecchi.

  • Qual è stata la sua più grande fonte di ispirazione? È cambiata nel corso della sua carriera o è rimasta sempre la stessa? 

È sempre stata la mia interiorità, non saprei se ringraziare l’universo o chi mi ha dato i natali per questo regalo. Io sono una creativa visionaria. Se dovessi definirmi brava o geniale, preferirei la definizione di geniale e lo dico in senso riduttivo. Bravo vuol dire che sei costantemente bravo; invece, la genialità ti arriva. Mi ispiro alle forme, ai movimenti, agli odori. Tutti i miei allievi sono dei libri su cui imparo.

  • L’insegnamento è uno di quei mestieri che consentono di non smettere mai di imparare. Dopo tanti anni, i ragazzi la stupiscono ancora?

Sempre. Quando insegnavo al liceo teatrale, ho fatto per tanti anni un lavoro sulla Composizione VIII di Kandinsky. Negli anni, i ragazzi hanno modificato la visione dell’opera, perché la contemporaneità entra senza volerlo a far parte della nostra fisicità ed emotività. Per un certo periodo, i ragazzi vedevano farfalle e cose leggere. Dopo l’attentato del 2001 alle Torri Gemelle, vedevano un evento negativo. Io continuo a imparare, però bisogna avere l’umiltà di farsi permeare dagli altri per poterli capire e stare in armonia con loro.  

  • Pensa che il teatro dovrebbe diventare una materia scolastica?  

Assolutamente sì, lo dirò fino all’ultimo giorno del mio respiro. Serve all’ingegnere, al medico e al netturbino.

  • Da che cosa scaturisce il potenziale educativo del teatro?

Innanzitutto, dalla letteratura, perché si deve leggere. Ho allievi che arrivano e pensano di far solo cose divertenti, poi realizzano che bisogna studiare. Scoprono che una poesia diventa una cosa bellissima: ha movimento, ha colore e ha una tridimensione. Mettere in tridimensione le parole, già solo questo, ti dà una visione e una crescita completamente diverse.

  • Secondo lei, qual è il futuro della danza e del teatro? Come si evolveranno?

Spero che non diventino dei patetici geroglifici. Tutto per quello che si vede in video è caratterizzato da passettini e manine bidimensionali. Credo nelle nuove generazioni e spero che capiscano che anche un elemento modesto, come una scatola nera, “fa da teatro” e si può dilatare, se i corpi lavorano insieme nelle tre dimensioni.  

  • È vero che l’arte nasce dalla sofferenza?

Personalmente sì, magari non da cose tragicissime. Ero una bimba molto introversa e la timidezza mi dava la possibilità di osservare meglio cos’avevo attorno. Per quanto mi riguarda, ci sono anche dei momenti creativi che sono esplosioni di felicità. C’è un detto orientale che dice che la vita può essere vissuta in due modi: come il cane che corre velocissimo e arriva in fondo al viale o il cane che si ferma e annusa ogni albero del viale. Dipende se vuoi capire cosa ti sta intorno o se vuoi andare dritto senza vedere niente di quello che sta vicino.

  • L’arte è ancora in tempo per restituirci la pazienza e la sensibilità necessarie per comunicare e comprenderci? 

Sì, per me è il suo dovere. La scorsa settimana ho fatto un seminario in cui abbiamo affrontato un racconto di Borges, Storia del guerriero e della prigioniera. A me è venuto in mente, dato che Borges stava diventando cieco, di mettere in scena la cecità con due modalità: nella realtà, la cecità fisica dell’autore e, nel racconto, la cecità metaforica dell’Occidente nel non capire perché una donna inglese avesse scelto di rimanere con gli indios. Con l’arte, lo scrittore ha comunicato metaforicamente questa cecità.

  • Qual era il suo sogno quand’era una bambina e qual è il suo sogno ora?

Da piccola volevo diventare come la Fracci. Ai miei tempi aveva portato la danza in televisione. Quando l’ho vista a teatro, devo aver visto metà spettacolo perché continuavo a piangere.
Il mio sogno ora è che Cadantea diventi un punto d’incontro di belle anime e un’officina d’idee. Io sono creativa e poco pratica, menomale che c’è Lucrezia [insegnante di recitazione e dizione n.d.r.] che fa le cose concrete! Questo potrebbe essere il mio testamento, ci ho messo tanto cuore qua.

Anna Baracco

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