Sono anni, secoli per la precisione, che lo spettro dell’idea della disoccupazione tecnologica torna a fare capolino nelle platee politiche e sociali. Fu Jean Charles Leonard Simonde de Sismondi, economista francese della prima metà dell’Ottocento, meglio noto come Simonde de Sismondi, a introdurre il concetto. Forse all’epoca l’idea era giustificata: mai prima di allora si era assistito a una crescita così rapida dell’impiego di strumenti tecnologici in continua evoluzione (ovviamente relativamente a quel periodo e non paragonabile con quella del giorno d’oggi) e le innovazioni spesso spaventano. Sono passati ormai duecentocinquanta anni dalla nascita di questa teoria e ancora i robot non hanno sostituito l’uomo, visione grottesca e per alcuni forse anche un po’ liberatoria. Seguendo la logica di Sismondi dovremmo essere tutti o quasi disoccupati, eppure non lo siamo, né è aumentata la disoccupazione a partire dall’introduzione di nuove tecnologie a ritmo crescente (fermo restando che le nuove tecnologie sono sempre esistite in quanto il termine ‘nuove’ è relativo).
La Figura 1 rappresenta il tasso di disoccupazione dal 1760 al 2016 nel Regno Unito, Paese scelto sia per completezza e accuratezza dei dati storici sia perché è stato il bacino originario della Rivoluzione Industriale. Seguendo la logica dell’economista francese dovremmo notare una linea crescente a ritmo più o meno costante, evidenza che in realtà non riscontriamo. L’andamento della disoccupazione ha avuto numerose oscillazioni, in alcuni periodi (Grande Depressione) ha superato il 15%, in altri (prima e dopo la Grande Depressione) è si è attestato in prossimità dello 0. Ne consegue che non possiamo accusare la tecnologia di aver causato la disoccupazione, altrimenti, come giustificare quei valori straordinariamente bassi? Come giustificare le oscillazioni?

Chiarito ciò potremmo ancora analizzare il problema da una prospettiva globale e attuale, dopotutto all’epoca c’era la macchina a vapore o la macchina da scrivere, oggi si parla di robot e intelligenza artificiale in grado di fare praticamente tutto quello che sa fare l’uomo.
La Figura 2 mette in relazione il numero di robot per 10000 impiegati e il tasso di disoccupazione in quattordici economie avanzate. Il risultato è sorprendente: nessuna traccia di sostituzione dell’uomo da parte delle macchine, anzi si nota una correlazione negativa tra presenza di robot e disoccupazione, ossia Paesi che adoperano un numero maggiore di robot registrano anche minori tassi di disoccupazione…l’esatto opposto della teoria di Sismondi! Certo, si considerano due sole variabili e se ne trascurano altre, ma non sembra comunque esserci motivo di allarmismo, tutt’altro.

Come spiegare questo fenomeno?
Nessun trucco, nessuna magia. L’intoppo risiede nel concepire l’economia come un gioco a somma zero, ossia un sistema con un numero chiuso e predefinito di lavori. Nulla di più sbagliato! Come spiegare alla nonna che una delle sue nipotine preferite è un’influencer, un’altra una data scientist e la terza una sviluppatrice di software? Difficile, all’epoca della nonna questi mestieri non esistevano. Funziona così: l’uso della tecnologia rende più efficienti le imprese, nuove risorse si liberano (capitale umano), parallelamente, una volta che tutti i bisogni sono stati soddisfatti grazie alla produzione aggiuntiva e all’abbassamento dei costi favorito dalle tecnologie, ne sorgono di nuovi che quelle risorse così liberate si procurano di soddisfare con nuovi beni o servizi. In questo modo da un lato migliora il tenore di vita della popolazione, dall’altro ci si libera di lavori pesanti e, nella maggior parte dei casi, poco intellettualmente stimolanti.
Ecco svelato il mistero del progresso e della crescita.
Simona Ferrero