Obiettivo Felicità

“Lavorare stanca”, scriveva Pavese. Le giornate durano sempre ventiquattro ore, eppure le cose da fare sono sempre di più e rinunciarvi è difficile, è come dichiarare di aver perso una battaglia. Fare, fare e fare, questo è l’imperativo di un mondo che ci vuole sempre più performanti, valutandoci in termini di produzione, quasi fossimo macchinari. 

Spesso si sente dire che c’è una stanchezza diffusa in primavera, ma siamo sicuri che sia solo colpa del cambio di stagione? Sempre più persone affermano di provare un senso di stanchezza ricorrente, sintomo del fatto che non sappiamo dare spazio al riposo, non avendo più un luogo o un tempo da dedicargli. Il sistema in cui viviamo ha ripensato la vita adulta in quanto fondamentalmente legata al mondo del lavoro , che talvolta rende gli adulti schiavi e incapaci di visualizzare vie di scampo che non siano il pensionamento dopo i 67 anni.

E se ci fermassimo a riflettere? Ci ritroveremmo probabilmente davanti ad un bivio: annichilire le nostre vite accontentandoci di qualcosa che non ci soddisfa in cambio di denaro da reinvestire o ripensare le nostre giornate in un’ottica costruttiva? La visione più diffusa è quella che ritiene che il lavoro debba sostanzialmente essere un mezzo per il sostentamento degli individui, ma vogliamo veramente ridurlo a questo?

Molti penseranno che una frase del genere possa nascere solamente da un grande privilegio e probabilmente è così, ma dovremmo sentirci in colpa per questo? Viviamo in un sistema sociale che molti definiscono oggi come “società della performance”, poiché il valore sociale delle nostre vite viene misurato in base a quanto siamo performanti e reattivi al cambiamento. Di conseguenza lo spazio privato e quello lavorativo entrano sempre più in contrasto, portando ad un affievolirsi dei margini che separano il tempo libero (dedicato alla rigenerazione) e quello lavorativo (della produzione). Chi non risulta performante agli occhi degli altri viene spesso emarginato, etichettato come “scansafatiche”, ed entra in un meccanismo di autodeterminazione negativa. Pensiamo sempre di essere indipendenti, eppure siamo fortemente influenzati da questa visione: veniamo valutati sin da piccoli in base ai risultati ottenuti piuttosto che in base al percorso affrontato; ci sentiamo ripetere che la scelta di un percorso di studi e di un lavoro non possono essere unicamente dettate dalla passione, ma che devono tenere assolutamente in considerazione l’aspetto economico. Siamo performer dall’infanzia e non possiamo riposarci fino a quando qualcuno non decide che per noi è tempo di farlo, spegnendo le luci e invitandoci a sederci su una panchina ad osservare le vite degli altri. Spiamo ciò che fanno, producono, guadagnano, entrando in paranoia quando non riusciamo ad essere altrettanto bravi e produttivi. 

È celebre la frase di Pier Paolo Pasolini “Ecco che essi ti insegnano a non splendere. E tu splendi, invece.” Oggi ,però, invece di pensare a splendere dovremmo fermarci a pensare alla felicità, rivendicando il nostro diritto a non essere per forza sempre ciò che gli altri si aspettano da noi, a non essere sempre produttivi e pieni di energia, pronti a svolgere un lavoro che non ci arricchisce come esseri umani in funzione di un guadagno economico. Rivalutare questo bisogno di performare potrebbe liberarci e aiutarci a non spegnerci per davvero e a bilanciare la necessità di vivere in questa società basata sul denaro con i nostri sogni.

La società della performance alimenta il nostro senso di precarietà e la competitività con gli altri esseri umani, e così spesso finiamo per diventare strade vuote che portano tutte verso la stessa meta. In quest’ottica rivalutare l’importanza della soddisfazione personale potrebbe liberarci dall’idea che questo sistema basato sul fare sia l’unico possibile, quando invece c’è chi ci dimostra chiaramente che non è così e che vale la pena a volte di fermarsi per capire cosa conta davvero.

Jessica Pons

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