Bianco e nero. Ritmo e pausa. Suono e silenzio. Ordine e disordine. Giusto e sbagliato. Nel tempo Lydia Tàr si è costruita un universo dicotomico, un mondo sotto il suo controllo, in cui niente le può sfuggire. Un modo di pensare che l’ha portata a percorrere la strada del successo, ma anche quella dell’ossessione morbosa per il potere.
La pellicola è una finestra sul mondo di Lydia Tár, direttrice d’orchestra all’apice della sua carriera: il nuovo libro è in uscita ed è impegnata a preparare l’attesissima esibizione e registrazione della Quinta Sinfonia di Mahler. Insomma, un “ave Cesare” ad una donna potente ed in carriera, che, come tutti i Grandi, ha delle increspature. Il film infatti è una risata amara, un capovolgimento violento di quello che dovrebbe essere il percorso di un artista. Invece di mostrare la gavetta e la conseguente ascesa all’Olimpo, Todd Field, che ha scritto la regia in sole 12 settimane, sceglie la direzione opposta: Lydia, dall’alto del suo piedistallo perfetto, cade sempre più giù, verso gli Inferi, in un incubo rabbioso di colpa, ipocondria e perdita di controllo. Dalla direzione della Filarmonica di Berlino a quella di un’orchestra di giovanissimi, per quella che è la colonna sonora di una serie di videogiochi, davanti a un pubblico di cosplayer.
Il film, uscito nelle sale il 9 febbraio scorso, ha già ottenuto un discreto successo: 6 candidature agli Oscar, 1 BAFTA, 1 Golden Globe e una Coppa Volpi al Festival del Cinema di Venezia. La maggior parte di questi premi sono stati vinti grazie alla magistrale interpretazione di Cate Blanchett; e d’altronde lei, e solo lei, sarebbe potuta essere Lydia, come Field ci tiene ad affermare: “Questa sceneggiatura è stata scritta per un’artista: Cate Blanchett. Se avesse rifiutato, il film non avrebbe mai visto la luce”. Succede che Tàr si impossessa prepotentemente di Cate, così come le è naturale. La direttrice non è abituata a condividere il successo, e forse la si può capire: si è fatta strada in un mondo, quello artistico, governato da invisibili dinamiche di potere, arrivando ad essere uno dei pochi e grandi esempi di direttrice d’orchestra donna, con un lungo e invidiabile curriculum. Ma se la sua figura si riducesse “solo” a questo, il film sarebbe durato meno rispetto ai suoi 158 minuti. Lydia è lesbica, sposata con il primo violino della sua Filarmonica, e ha adottato Petra, la figlia della compagna. La bambina e la musica sono le uniche a vedere la parte luminosa della protagonista, a poter rientrare nella sua vita rigorosamente ordinata. Un desiderio di armonia e disciplina che arriva a rasentare i limiti della sanità mentale: Lydia si igienizza frequentemente le mani, ha abiti fatti su misura dal sarto, lo studio di casa sua a Berlino è sui toni del bianco e del nero, e anche il suo altro appartamento in città è estremamente ordinato. Un’organizzazione che è lo specchio della sua vita e del suo bisogno di mantenere il controllo su tutto e tutti.
Il problema, ovviamente, è che tutto è mutevole, e man mano che il film prende piede, lei perde il precedente controllo. Il punto di svolta è nella scena in cui Lydia è costretta ad aiutare la vicina di casa a rimettere la madre, vecchia, nuda e malata, su una sedia che ha un buco per le feci. Un comportamento di pietà, diremmo tutti. Per la nostra protagonista non è del tutto così: sembra ipnotizzata da quella anzianità che non vuole accettare, che sente ancora così lontana dal suo corpo; lo sguardo di Lydia si perde a guardare quel disordine marcio che la circonda, e che cerca in tutti i modi di tenere alla larga, ma che si trova dall’altra parte del pianerottolo. Tàr si tappa la bocca, quasi avesse paura che l’ambiente possa attaccarle un qualche morbo sconosciuto. Dopo averle aiutate, scappa nel suo appartamento e inizia a sfregarsi via il contatto con una realtà che DEVE rimanere lontana da lei, ma che ha già iniziato ad infettarla.
Un film che raccoglie temi contemporanei e si connette indissolubilmente alla nostra società. Mercoledì 1 febbraio è stata trovata morta una ragazza alla IULM di Milano. Un mese esatto dopo, un’altra ragazza a Napoli. Due suicidi, entrambi connessi all’università. È sempre triste e quasi impossibile scrivere di certe notizie. Anche solo riportarle. Eppure queste due morti, per quanto sia tragico dirlo, ci appartengono culturalmente. La società ha una stortura sistemica che miete vittime ma non condanna i colpevoli. Una stortura che è causata da scelte precise e che perciò non è frutto di un processo naturale. Eppure la colpevolezza è una dimensione complessa e ambigua. C’è, ma chi la stabilisce?
Tàr è anche questo: un’opera che riflette e fa riflettere su questo disagio. Mostra, senza mezzi termini, le aberrazioni di un sistema meritocratico e competitivo che influenza le scelte di donne e uomini e ne compromette le vite. In effetti, la parabola discendente della carriera di Lydia Tàr non è l’unico tema protagonista della storia, ma si connette, e forse viene generato, proprio dalle tragiche conseguenze di questo sistema.
Il film si apre con un suicidio e si conclude con la scomparsa di due giovani apprendiste. Due ragazze che come noi speravano di realizzare il sogno che una narrazione storica costante ci ha promesso. Che persone intrise di questa narrazione ci hanno promesso. È proprio la contraddizione tra la narrazione di qualcosa e la sua applicazione che genera questo cortocircuito. Lydia sembra non rendersi conto della gravità delle sue scelte. Lei è un’artista e nel mondo dell’arte si sa, entri per talento e allenamento. L’artista solo, l’artista genio, sempre diverso eppure sempre coerente. Una bella favola.
Lydia: “Se vuoi danzare il mask, devi servire il compositore, devi sublimare te stesso, il tuo ego e, certo, la tua identità. Devi, difatti, porti davanti al pubblico e a Dio e annientare te stesso”.
Così, l’uomo diventa il mezzo dell’opera d’arte. Il soggetto è ormai crollato, distrutto dal martello di Nietzsche e disperso nel sentiero di Heidegger. Lydia Tar con queste parole sembra quasi descrivere l’artista, ovvero un uomo, come un mezzo. Svuotato della sua soggettività, è il tramite di un “progetto più grande”. Crede in questo paradigma di pensiero e pretende di applicarlo. Ancora una volta, una bella favola.
Ma cosa c’entrano le speculazioni sull’arte con la gestione di una classe o un’orchestra? Con la distribuzione di ruoli e salari? Perchè di questo si tratta. A cosa porta influenzare il pensiero di un proprio allievo con questa retorica? Il problema non potrebbe essere lo scarto comunicativo che c’è fra generazioni diverse; che vivono paradigmi di pensiero diversi; che vivono contesti socio-economici diversi? È tutta qui la contraddizione di Lydia: dell’artista e dell’ego che lei stessa critica. Max si rifiuta di suonare Bach perché non si rispecchia nei suoi riferimenti valoriali ed ideologici. Bach era misogino e Max non vuole suonarlo. Vede Bach non come un mezzo per la nascita dell’opera d’arte, ma come un uomo che crea influenzato dai suoi valori. Così se l’artista è misogino, l’opera sarà misogina. Un paradigma ideologico che fa capo a condizioni storiche diverse rispetto a quello della Tàr. Eppure Lydia invece di comprendere questo inevitabile scarto, questa distanza generazionale, pretende di imporre il suo universo valoriale. Conclusione? Un ragazzo è stato umiliato e un’artista ha riaffermato il suo ego. È un fallimento educativo.
Questo è solo uno delle scene del film che mostrano la contraddittorietà in cui vive Lydia Tàr. Un’apparente sicurezza di pensiero, di personalità che si scontra con le contingenze della vita. Che compromette le scelte di una donna che svolge un ruolo di autorità, che, seppur inconsapevolmente, determina la vita di altre persone. Nonostante ciò, sarebbe riduttivo colpevolizzare solo lei. Sarebbe anche ingiusto per il lavoro del regista Tod Field manipolare così tanto il suo film. “Tàr” come opera d’arte (e qui sì che la speculazione aiuta a comprendere) non si compone di vittime e colpevoli. È una finestra, molto filtrata, sul reale. Verso, in questo caso, una realtà storica che vede i suoi giovani perdersi ed uccidersi. Lydia è solo un ingranaggio di un meccanismo non più grande degli uomini, ma più grande dei suoi meccanismi. Un tritacarne meritocratico che è stato stabilito e che viene alimentato, consciamente o inconsciamente che sia.
Nei suoi difetti, nella sua densità ed anche prolissità, Tàr è un’opera che non solo riesce ad indagare il reale, ma che tartassa lo spettatore di domande e dubbi, ponendoci di fronte a dalle tragicità non facili da digerire. Non è un appello al cambiamento o alla rivoluzione, non avrebbe la pretesa di esserlo. Ma riesce a decostruire delle verità e obbligare lo spettatore a riflettere su ciò che ha visto, e su ciò che vive.
Redazione The Password: Rachele Crosetti
Redazione Requiem for a film: Salvatore Gucciardo