L’importanza delle parole: quanto conosciamo realmente la lingua che parliamo oggi?

Quanto può essere bello il mondo visto attraverso le parole? Queste, un insieme di lettere che possono dare vita alle forme più incredibili di idee, emozioni e quant’altro, rappresentano forse uno dei beni di maggior pregio che l’essere umano possieda oggigiorno. Il tempo ci ha insegnato ad usarle e alcune volte ne ha modificato il valore ma, nonostante tutto, ha sempre cercato in ogni qual modo possibile di elevare la loro importanza all’interno della vita quotidiana e non.

L’italiano, spesso, si crede sia una lingua derivata dal latino (idioma che i Romani indicavano con il termine grammatica) quando in realtà ne è la sua continuazione. Nell’odierno italiano le parole che utilizziamo in alcuni casi risultano essere ancora simili alla lingua che continuano mentre in altri hanno subito una serie di mutazioni fonetiche e morfologiche nell’arco dei secoli e ancora ne subiranno da qui al prossimo futuro: è quindi curioso pensare che la lingua adoperata da noi oggi, potrebbe essere di passaggio poiché in continua evoluzione. Ogni parola, presa fin dal suo etimo, possiede un significato e certe volte potrebbe essere a dir poco interessante conoscere da dove arrivi la loro derivazione: idem, per esempio, è una parola che procede direttamente dal latino e che noi oggi usiamo nel suo stesso significato ed è incredibile pensare al fatto che possa aver resistito tutto questo tempo arrivando fino a noi. In altri casi la storia è ben diversa: mangiare, invece, è un prestito dal francese adattato alla lingua di arrivo. In latino si usava manducare (la cui forma ridotta era manicare) che, seguendo le regole dei vari mutamenti, dà origine a magnare, il quale oggi viene comunemente utilizzato nel dialetto romanesco. Esistono poi ulteriori curiosità, come ad esempio la differenza tra parole di tradizione popolare e parole di tradizione dotta (dette anche latinismi o cultismi): nel primo caso possiamo porre l’esempio di auru(m)>oro mentre nel secondo aureu(s)>aureo. Da due basi latine piuttosto simili si sono ottenuti due esiti differenti, come è possibile ciò? La risposta ci viene data dal fatto che, nel primo caso, la parola latina è stata usata costantemente nel tempo attraversando così i numerosi mutamenti linguistici (in questo caso, ad esempio, la monottongazione au>o) mentre, nella seconda alternativa, l’etimo originario deve essere stato abbandonato per un periodo piuttosto lungo e ripreso solo quando ormai determinati mutamenti non avvenivano più, risultando quindi molto più simile al latino rispetto alla prima.

Un’altra curiosità che potremmo porci è la seguente: l’italiano prosegue il latino scritto o quello parlato? Per rispondere dobbiamo partire dall’idea che queste due varietà non erano le stesse. Il latino parlato dalle persone colte non era lo stesso che veniva utilizzato da quelle più povere, così come poteva variare a seconda della situazione colloquiale (ne sono un esempio le lettere di Cicerone, il quale le scrive in un latino più confidenziale rispetto a quello adoperato nel redigere le sue opere). Detto ciò, la risposta alla domanda ci viene data dall’Appendix Probo: si tratta dell’opera di un maestro di scuola del III secolo d.C. rimasto anonimo, così chiamata (Appendice di Probo) perché trovata in fondo a un manoscritto il quale conserva gli scritti di un autore che si suole indicare come lo pseudo-Probo. Questa appendice è una lista di 227 parole organizzate in due serie diverse: nella prima si presentano secondo la norma del latino scritto, nella seconda invece nella forma “errata”, cioè così come le pronunciavano o le scrivevano gli scolari, nello schema «A non B». Alcuni esempi sono «speculum non speclum, auris non oricla, calida non calda»: da qui riusciamo ad osservare che le parole italiane sono più vicine agli “errori” e non alle forme corrette, poiché oggi si hanno termini come specchio, orecchia e calda, dunque ciò conferma che la nostra lingua continua il latino parlato e non quello scritto.

L’italiano, inoltre, è un serbatoio immenso all’interno del quale possiamo trovare parole derivanti anche da altre lingue, come ad esempio guerra (dal germanico) o albicocca (dall’arabo), e dove anche il greco è molto presente, in parole come filosofia [in greco antico φιλοσοφία, philosophía, composto di φιλεῖν (phileîn), “amare”, e σοφία (sophía), “sapienza” o “saggezza”, ossia “amore per la sapienza”] o addirittura nomi propri come Filippo [nome in greco antico Φίλιππος (Philippos), composto da φιλος (philos), “amico”, “amante” e ‘ιππος (hippos), “cavallo” e vuol dire “amico dei cavalli”, “amante dei cavalli” (per estensione “cavaliere” o anche “bellicoso”)].

Terminato questo breve excursus, possiamo dunque dire con certezza di possedere un patrimonio linguistico immenso: conoscerlo sicuramente non è obbligatorio ma siamo certi che, stimolando un po’ la curiosità, potrebbe venirci voglia di intraprendere un percorso che possa farci apprezzare un’eredità in grado di raccontarci al meglio tutto ciò che è stato prima di noi.

Andrea Bordonaro

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