Il 24 febbraio la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso e confermato il 41bis per Alfredo Cospito, il militante anarchico in sciopero della fame contro questo regime carcerario da più di quattro mesi. L’avvocato di Cospito, Flavio Rossi Albertini, ha definito la sentenza della Cassazione una “una condanna a morte”.
La vicenda di Cospito, la cui salute al momento versa in condizioni estremamente preoccupanti, ha aperto uno squarcio su diversi nodi irrisolti che permeano il tessuto sotterraneo socio-politico del Paese e che in questo momento stanno emergendo a galla mostrando tutte le loro problematicità. Problematicità che vertono su questioni come il significato del dissenso e la sua gestione, sul ruolo delle carceri nella nostra società, sul concetto di punizione, di sorveglianza e di repressione.
Quella di Cospito non è la prima forma di protesta nata in seno all’istituzione penitenziaria: in questi anni le rivolte nelle carceri sono aumentate in modo significativo, segnalando le condizioni di vita precarie e violente in cui sono confinate le persone detenute nelle strutture carcerarie italiane. Queste condizioni hanno conosciuto un’insopportabile peggioramento nel periodo del COVID: dal marzo del 2020 si sono susseguite diverse rivolte in diverse carceri italiani: da Rebibbia a Modena e a Santa Maria Capua Vetere, in cui le proteste hanno ricevuto come risposta una repressione sanguinosa.
L’intreccio tra il caso di Cospito e la situazione generale delle carceri è stato evidenziato anche da Zerocalcare nella storia a fumetti La voragine, pubblicata online su L’Essenziale: “È accettabile che per una categoria il sistema giudiziario abbia solo il volto della vendetta?”

La tavola finale de La voragine coglie e riassume ciò che rende la natura delle strutture penitenziarie così crudele e annichilente: il loro fungere da frontiera fisica che divide i buoni dai cattivi, al di là della quale si apre una zona in cui diventa lecita la sospensione e la violazione di ogni diritto. L’aspetto più scoraggiante è l’effetto di questa divisione così netta e di questo isolamento totale: il silenzio e l’indifferenza che serpeggiano nella società, dalla parte dei ‘buoni’, che fagocitano le violenze, i soprusi e le privazioni che si verificano periodicamente in queste realtà. Questo sistema binario rende ordinario il mostruoso, legittimo ciò che sarebbe solitamente tacciato di disumanità.
L’associazione Antigone, che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario e si occupa di raccogliere e divulgare informazioni sulla realtà carceraria, restituisce dei dati preoccupanti: nel 2022, 84 persone detenute si sono tolte la vita. Un dato le cui ragioni sono radicate nelle generali condizioni delle carceri, nel sovraffollamento, nello stato di salute dei detenuti e nell’assenza di opportunità lavorative, di studio e di svolgimento di attività.
Delle alternative sono possibili?
Il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, in riferimento a questi dati, ha parlato della necessità di una riforma profonda del sistema carcerario:
“Da questi dati si comprende come il carcere abbia necessità di interventi di riforma profondi. Occorre innanzitutto incrementare le misure alternative alla detenzione. Ci sono migliaia di persone che potrebbero scontare la loro pena fuori dagli istituti di pena e persone che, per il reato commesso e la loro condizione personale – tossicodipendenza, disturbi psichiatrici – andrebbero presi in carico dalle strutture del territorio, evitando di trasformare le carceri in un luogo dove si rinchiudono le persone che non si è in grado di gestire fuori. Questo aiuterebbe anche il lavoro del personale, che andrebbe incrementato in tutte le funzioni e gratificato dal punto di vista sociale ed economico per il lavoro complesso e difficile che si trova a svolgere. Andrebbe poi modernizzata la vita interna, garantendo maggiori collegamenti, anche elettronici, con il mondo esterno. Quello all’affettività è un diritto che deve diventare centrale nel sistema penitenziario italiano fermo, da questo punto di vista, a disposizioni di oltre 40 anni fa.”
Il dibattito sul carcere non è una cosa recente, soprattutto a livello internazionale (basti pensare alle riflessioni sul carcere e le elaborazioni in chiave abolizionista di Angela Davis): allo stesso tempo è difficile ampliare il dibattito e coinvolgere una comunità più ampia in una riflessione profonda sui sistemi punitivi.
Lo scrittore Luigi Manconi ha menzionato questo aspetto in relazione al 41bis e alla vicenda a cui stiamoa assistendo oggi con la condanna di Cospito: “Il carcere è un argomento non remunerativo per la classe politica, e anzi controproducente per quanti se ne interessino”. Il carcere, aggiunge, è “sempre un sistema patogeno e criminogeno: da un lato induce patologie e depressione, autolesionismo e morte, dall’altro tende a riprodurre all’infinito criminali e crimini. Ebbene, questo carcere diventa ancora più difficilmente materia di discussione e di iniziativa pubblica quando viene applicato a chi risulta nella rappresentazione mediatica il nemico assoluto. Siccome in genere al 41 bis si trovano i mafiosi, parlare dei diritti del mafioso detenuto è la cosa più difficile del mondo. Come se parlare dei suoi diritti non fosse la stessa cosa che parlare dei diritti di chiunque finisca in carcere”.
Colmare la voragine potrebbe essere un enorme passo avanti: riconoscere questi sistemi non come corpi alieni abitati da una popolazione estranea ma come parti integranti della società in cui viviamo e specchio dei suoi valori e delle sue paure, scardinarli dalla loro dimensione separatista e isolante e portarli al centro del dibattito pubblico. Avvicinare, ingrandire l’obiettivo, affrontare il riflesso a cui ci mettono davanti.
Sofia Racco