Nel 1987 la linguista Alma Sabatini pubblicò un saggio pionieristico nell’ambito del linguaggio di genere. Il sessismo nella lingua italiana ne era il titolo nonché la fonte primaria di scalpore in un’Italia che si poneva in una posizione nettamente più retrograda rispetto al resto dell’Europa e del mondo in merito a policies e interventi che riguardassero la discriminazione di genere in ambito linguistico. Alla fine degli Anni ’80, l’Italia stava ancora navigando nella palude della crisi , conseguenti al secondo conflitto mondiale, nel tentativo di approdare verso orizzonti più floridi e stabili con il Governo di Craxi e la rappresentanza di Sandro Pertini, che presero le distanze dai modelli di socialismo sovietici per promuovere le libertà individuali e il pluralismo sociale.
In un contesto dinamico, la penisola italiana adottava indubbiamente una posizione statica rispetto al commiato che unisce la lingua al genere. L’emancipazione femminile, avvenuta anche conseguentemente ai conflitti mondiali, non si rispecchiò nel linguaggio. E quando oggi, assistendo alla volontà della prima rappresentante femminile del Governo italiano di essere riconosciuta come “il” presidente, in accezione pienamente maschile, emerge il dubbio che i progressi effettuati da quegli apparentemente lontani Anni ’80 siano esigui.
Comunicare è inevitabile
La comunicazione costituisce le fondamenta della vita umana perché tutti gli esseri umani vi attingono. Anche coloro che scelgono di condurre un’esistenza eremitica, trasmettono, attraverso il proprio isolamento, un forte messaggio alla comunità di distacco e all’intera umanità.
Riprendendo il primo dei cinque assiomi elaborati dagli studiosi della Scuola di Palo Alto e da Watzlawick, in particolare: “è impossibile non comunicare”, qualsiasi forma di comunicazione si intenda (verbale e non verbale). Ma è altrettanto impossibile comunicare contenuti inesistenti, afferendo alla sola comunicazione a parole. I termini di cui ciascun sistema linguistico è costituito rappresentano, infatti, la realtà delle società che condividono una specifica lingua cosicché ciò che si dice a parole è, di conseguenza, esistente. E se in quelle stesse parole sono contenute sfumature di discriminazione, allora esse si sprigioneranno in spettri di discriminazioni dalle varie colorature, anche quelle di genere.
Il linguaggio riflette e, a sua volta, si rende riflesso delle società e con esse muta e si rigenera, tramite neologismi o riformulazioni di terminologie e di modi comunicativi pre-esistenti. In questo senso, è possibile dedurre l’assunto che, se in Italia il potere è ancora concepito come “maschio”, in ripresa dell’appellativo “il” presidente sopracitato, allora forse questo Paese è ancora intrappolato in un’ottica sessista e discriminatoria, per quanto essa possa essersi attenuata negli anni.
Linguaggio e genere
Il sessismo nella lingua italiana fu il risultato di analisi effettuate sul linguaggio della stampa e sulla formulazione degli annunci delle offerte di lavoro, elaborati negli Anni ’80, come riprova della disparità di genere italiana dell’epoca. Il saggio, tuttavia, risulta attuale in rapporto alla sezione con la quale esso viene concluso dalla Professoressa Sabatini, la quale propone alcune soluzioni, senza la presunzione di essere completamente esaustiva al riguardo, per un uso non sessista della lingua italiana. Gli espedienti eviscerati combaciano con modalità che tuttora, in larga parte, non vengono applicate ma che potrebbero risultare utili per ottenere una parità che non veda la “donna pari all’uomo”, ma che concepisca la donna, l’uomo e tutte le sfumature di cui si compone l’amalgama infinito del genere sul piano della parità.
Nei Paesi anglosassoni, i provvedimenti linguistici che aspirano a rendere concreta, anche a parole, la gender fluidity, oltre il binario “maschile-femminile”, sono plurimi. L’introduzione del pronome personale “ze”, l’utilizzo dell’appellativo “Mx” o, ancora, l’applicazione del plurale “they” o “their” in situazioni che richiederebbero la forma singolare ne sono alcuni esempi. In italiano, d’altro canto, sembra prevalere una tendenza maggiormente prescrittivista, favorevole alla correttezza grammaticale piuttosto che a quella politica e descrittiva del mondo attuale. Ciononostante, la vocale “schwa” [Ə] è stata negli ultimi anni al centro del dibattito linguistico come desinenza alternativa e simbolo di espressione per coloro che non si identificano nelle proposte dicotomiche di un genere che transita su due binari. Per iscritto, essa può assumere grafiche diversificate, come l’asterisco (*), il cancelletto (#) o la chiocciola (@), mentre sul piano orale, viene pronunciata come una vocale media-centrale o è sostituita da altre vocali concepite come neutre, quali la [u].
Oltre alla schwa, di recente origine e introduzione, sebbene non espressamente formalizzata e accettata, Alma Sabatini proponeva già soluzioni a partire dal semplice ordine che i termini assumono in un discorso. Statisticamente è stato provato che, nella lingua italiana, il maschile tende a precedere il femminile, quando ci si riferisce ad ambo i sessi (ad esempio nella formula “signori e signore”).
In riferimento agli ambiti lavorativi o alle sfere di potere, si tende, inoltre a marcare il genere femminile attraverso articoli determinativi che precedono i rispettivi cognomi (ad esempio “La Meloni” è la formula utilizzata per riferirsi alla Premier Giorgia Meloni, mentre il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non viene mai chiamato “il Mattarella”), con la specificazione del genere (“la donna magistrato”, che viene effettuato anche inversamente in merito ai lavori prettamente maschili con, ad esempio, “l’infermiere uomo”) o con l’aggiunta del “suffisso-deminutio” -essa. Quest’ultimo dovrebbe essere evitato, qualora si desideri effettuare un uso paritario della lingua italiana, nel volgimento al femminile di termini quale “presidente” o “avvocato”, termini derivanti da participi latini per i quali non è prevista alcuna mutazione di genere. L’aggiunta di marcatori di genere, siano essi articoli o suffissi, genera sempre disparità perché la loro presenza implica la conseguente necessità di averli per chi li porta. Siccome i termini al femminile sono quelli che più frequentemente vengono accompagnati da marcatori, il messaggio che si percepisce è discriminatorio verso le donne che, considerate, anche in modo latente, inferiori necessitano di maggiori sussidi per “pareggiare i conti” con gli uomini, considerati la “norma”.
Dagli spunti forniti dalle ricerche della saggista Sabatini si può ancora oggi apprendere e trarre ispirazione per lavorare verso un futuro meno discriminatorio e più paritario. Tale ambizione può avvenire anche a partire dai gesti più ordinari, spesso considerati insulsi, ma che in realtà influiscono costantemente sulla visione che chi li compie elabora del mondo. La lingua è uno di quei gesti e detiene un potere immenso sulla società e le sue evoluzioni: sta a noi apprenderne l’importanza per saperla utilizzare come timone di navigazione verso terre in cui sia possibile coltivare le piante della parità.
Alessia Congiu