“Per suonare accordi imperfetti nel futuro meraviglioso che ti meriti. Con affetto, Francesca”: poter ricevere un augurio simile da una persona che stimi è un’emozione unica. Francesca Delogu, giornalista, musicista ed ex direttore di Cosmopolitan, è una personalità eclettica e decisa, libera e piena di sfaccettature. In occasione della presentazione torinese del suo libro Il mio analista è un basso elettrico ho avuto il piacere di intervistarla in videochiamata per The Password e poi di incontrarla al Circolo dei Lettori insieme a Luca Vicini (Vicio), bassista dei Subsonica, in un’atmosfera di ispirazioni e contaminazioni tra moda, musica, filosofia e vita, proprio come l’atmosfera che mi aspetto di respirare leggendo il suo libro. Dopo una lunga chiacchierata in cui abbiamo discusso molti argomenti, tra cui il fatto che a lei piaccia avere a che fare e confrontarsi con le giovani generazioni, abbiamo poi parlato di lei, della sua carriera, del suo nuovo libro, delle sue idee riguardo alla moda e alla musica e dei consigli che lascia ai più giovani che vogliono scrivere nella moda. A voi l’intervista che Francesca ci ha rilasciato.
Che consiglio daresti alle e ai giovani che vogliono intraprendere il tuo stesso percorso diventando giornalisti e lavorando nella moda?
Il primo consiglio che mi viene in mente per chi vuole fare il giornalista è leggere tanto e avere un’immensa e inesauribile curiosità. Il primo passo verso questo mestiere è cercare di sapere più cose possibili, perché quando leggiamo tanto abbiamo il flusso delle parole, le cose ci vengono in mente più facilmente. Chi non legge e non è curioso difficilmente riuscirà ad andare avanti, perché è fondamentale. Chi vuole scrivere e comunicare nel mondo della moda secondo me deve essere ancora più curioso. La scrittura di moda è molto complicata perché non è mai una cronaca pura. Per essere un bravo giornalista di moda bisogna avere una cultura molto trasversale e fare zapping tra mondi, perché quando si guarda un vestito non si può mai vedere solo il vestito e basta. Un vestito lo puoi raccontare descrivendolo, però devi avere tanti contenitori osmotici tra loro attraverso i quali ti muovi. All’interno del tuo articolo puoi portare qualsiasi cosa, in un vestito ci devi vedere altri mondi perché altrimenti la recensione della moda diventa una sorta di descrizione che non interessa a nessuno. Scrivere di moda è un po’ un’arte, perché qualsiasi cosa può essere un’ispirazione. Io consiglio a tutti i giovani di guardare tutto ciò che sta loro intorno (ovunque può esserci un’idea per descrivere un vestito) e di essere creativi: nella moda ti puoi consentire di inventare anche dei neologismi. Il giornalismo di moda spesso è considerato dai colleghi come il più semplice, ma in realtà è il più difficile: ce ne si può accorgere solo facendolo.
Per quanto riguarda invece gli studi che si possono intraprendere, credo che il primo passo sia quello di fare facoltà umanistiche perché è più semplice (credo che con altre facoltà si possa comunque diventare giornalisti, anche se la strada sarà più in salita). Cominciando poi a confrontarsi con i professionisti del settore si può avere qualche chance in più. In ogni caso bisogna anche essere coraggiosi, buttarsi: quando sono stata direttrice di Cosmopolitan ho fatto scrivere delle ragazze sul giornale che non erano giornaliste ma mi avevano scritto mandandomi delle proposte. In questo momento voi giovani avete tante opportunità come collaboratori: è vero che un lavoro fisso è più difficile trovarlo, però è anche vero che i dipendenti sono pochi e c’è bisogno di tanti collaboratori esterni. In questo caso è importante mandare un’email mirata, con già delle idee perché chi riceve la mail magari non ha tempo di risponderti e proporti un pezzo. Nessuno si deve sentire escluso, credo che tutti possano avere una possibilità, però dipende molto da noi: quisque faber fortunae suae, che significa che ognuno è artefice del proprio destino e il nostro destino può essere la nostra fortuna se lo costruiamo nel modo giusto.
Qual è il tuo percorso? Come sei diventata direttrice di Cosmopolitan?
Sono sempre stata una grande fan delle materie classiche e non ho mai saputo cosa fare nella vita. Sapevo cosa non volevo fare, però non ho mai avuto un obiettivo preciso in termini di carriera. Ho fatto questo percorso di studi perché mi è sempre piaciuto, ho frequentato il liceo classico e mi sono laureata in lettere e filosofia, e i miei genitori mi hanno sempre assecondata. Una volta laureata non avevo ben chiaro cosa fare, però un giorno sfogliando un giornale di moda, 100 Cose, ho trovato un annuncio di una borsa di studio per giornalisti nell’ambito moda, lifestyle e costume a Milano. Per entrare in questo corso ci si doveva candidare scrivendo ed inviando loro un articolo. Così mi sono candidata e sono stata scelta per questo master in giornalismo. In quell’anno mi sono fatta notare da dei docenti che erano giornalisti che mi hanno proposto di andare a collaborare con loro. Quindi ho iniziato nelle redazioni attraverso questo master, in realtà nella scrivania da “abusiva”, per i giovani collaboratori. Così ho iniziato a scrivere per vari giornali, poi un giorno mi ha chiamato il direttore di un giornale economico MF (Milano Finanza) che ha delle pagine di moda, MF Fashion, mi ha detto che aveva sentito parlare di me e mi ha assunta facendomi fare un articolo, una prova: è stato il mio primo contratto da giornalista. Ho lavorato poi in tantissimi giornali femminili, per esempio Repubblica D, poi sono stata chiamata da un altro direttore che dirigeva due giornali in Mondadori, che mi ha chiamato prima da Flair poi, quando ha chiuso, da Grazia. Mentre ero vice direttore a Grazia, mi hanno chiamata da Cosmopolitan. E’ stato incredibile fin dall’inizio perché per arrivare ad essere direttrice lì, mi sono dovuta candidare e fare un percorso in salita di 3 mesi in cui il colloquio in realtà era una gara con altri 4 candidati, che sono rimasti segreti, che consisteva in varie prove, tutte in inglese perché gli intervistatori erano americani. Ogni settimana mi veniva dato un compito nuovo per la settimana successiva, lavoravo infatti nel weekend dato che durante la settimana dovevo lavorare a Grazia. A livello psicologico è stato molto pesante, non avevo mai un feedback, però alla fine è andata bene perché, dopo alcuni colloqui, sono stata scelta. Sono andata poi a fare il training come direttore nella redazione americana a New York: lì è iniziata questa fantastica esperienza. Adesso la mia vita è un caos punk: dopo Cosmopolitan mi si sono aperti un sacco di mondi, sto sempre facendo la giornalista però al momento non voglio avere un lavoro fisso. Ho fatto dei podcast, scrivo, sto facendo collaborazioni, insegno nei master di moda ed è uscito anche il mio nuovo libro.
Cosa significa la moda per te?
La moda è molto importante perché innanzitutto ci rappresenta. La moda per me è anima, è il modo in cui siamo. Lo stile è il primo identikit che abbiamo, non solo ci rappresenta, ma ci dà autostima perché a volte se riusciamo a scegliere il vestito che ci fa sentire meglio, abbiamo un livello di capacità di esprimerci sentendoci a nostro agio che aumenta la nostra self confidence. La moda dunque è molto importante sia a livello personale in questo senso, ma anche per divertirsi e travestirsi perché ci dà anche questa opportunità, ci consente di esprimere tutti i nostri lati anche giocando. È qualcosa di personale, ma anche di molto importante a livello di società, perché la moda nei secoli ci consente di dare una lettura molto importante dell’evoluzione della società, a livello storico è molto interessante. Anche a livello economico, soprattutto in Italia, la moda è molto importante: basti pensare al suo fatturato e ai posti di lavoro che dà: è uno dei nostri tesori nazionali.
E’ possibile avere, lavorando nella moda, una work-life balance, ovvero una vita equilibrata tra lavoro e tempo libero?
Certo, si può fare. Normalmente chi fa questo lavoro lo sceglie, quindi spesso a chi lavora nella moda il proprio lavoro piace così tanto per cui coinvolge a livello lavorativo ma anche personale, dunque quella bilancia work-life a volte si sbilancia, però sei tu a volerla sbilanciare perché ti appassiona. A volte per esempio può capitare una sfilata la sera o la domenica e al giornale ti chiedono se vuoi partecipare oppure se mandare qualcun altro: solitamente c’è la corsa per ottenere l’invito ad una sfilata o ad una festa. Dipende comunque molto da noi, siamo noi a decidere come gestire le nostre ore di lavoro. Credo che in questo momento storico dopo la pandemia il discorso work-life balance sia diventato molto importante, però in questo ambito è anche più difficile farlo perché a volte le ore di lavoro sono ore di vita che vuoi vivere tu. Non è quindi difficile mantenere una work-life balance, però sicuramente bisogna essere consapevoli appunto del fatto che spesso la propria vita si porta il lavoro dentro e viceversa.
Parlando di passioni, tu sei appassionata di moda e musica. Questi due ambiti sono spesso collegati e lo sono anche nella tua vita: pensando a te associamo il tacco 12 al tuo basso.
La moda e la musica sono sempre state collegate. Quando ero piccola, le star della musica mi hanno sempre ispirata per i loro look. Per me i veri trend setter del passato sono i musicisti, tanti di loro con il loro stile hanno veramente dato ispirazioni enormi agli stilisti, dunque sono anche collegati da quel punto di vista. A livello personale, quando mi è capitato di suonare con vestiti più sobri suonavo meno bene, infatti non posso pensare di suonare senza tacchi. A volte stare scomoda sui tacchi e con vestiti scomodi mi dà dei super poteri mentre suono, il modo in cui sono vestita mi aiuta tantissimo. Capisco quindi che spesso i musicisti si vestano in modo particolare e che anche adesso siano il terreno di sperimentazione più interessante per gli stilisti. I palchi istituzionali, basti pensare a Sanremo, sono diventati una palestra per sperimentare look un po’ diversi.
La musica poi è sempre stata presente nella mia vita, ancora prima della scrittura. Quando ero molto piccola ho iniziato a studiare il pianoforte, sono nata in una famiglia in cui c’era molta musica perché mio padre suonava il clarinetto, mia mamma ballava per hobby e suonava la chitarra, mio fratello suona tutto, fin da piccoli il nostro gioco era suonare e ascoltare i dischi di vinile. Sono arrivata poi in età adulta a suonare il basso, che è uno strumento che si suona con gli altri, uno strumento da band, quindi ho cominciato a trovare dei gruppi. Poi, durante la pandemia ho iniziato a suonare la tromba: volevo fare qualcosa che mi ricordasse la pandemia in modo positivo, ho ordinato quindi una tromba online, poi ho contattato un maestro e ho iniziato a fare lezioni di tromba su Skype, poi ci siamo incontrati dal vivo e adesso sto ancora prendendo lezioni. La musica per me è un dono, attraverso la musica non ci si sente mai soli.
Nel tuo nuovo libro “il mio analista è un basso elettrico” la musica, la moda e la tua vita si intrecciano. Come ti è venuta l’idea di scriverlo, quali sono i temi principali trattati e come vengono sviluppati?
L’idea del libro è stata degli editori di Do it human, casa editrice dedicata agli umani che scrivono libri per chi vuole migliorare come essere umano. Mi seguivano già su Instagram e quando sono uscita da Cosmopolitan mi hanno subito contattata e mi hanno proposto di diventare autore per la loro casa editrice e di scrivere un saggio sulla mia vita, di come sono diventata giornalista e direttore. All’inizio ho sentito la sindrome dell’impostore, che sento spesso quando suono, e ho pensato che a nessuno potesse interessare la mia storia e comprare un libro in cui parlo di me, quindi sono stata molto in stand by. Alla fine mi hanno chiesto di provare a buttare giù una scaletta e allora un giorno, mentre facevo una lezione di tromba, mi è venuto in mente il taglio del libro: trovare la chiave negli strumenti musicali che nella mia vita ho suonato e che suono perché accompagnano la mia biografia, ma anche perché mi sono resa conto che gli strumenti erano proprio dei maestri ribelli per tutti, la metafora degli strumenti musicali poteva servire per fare da file rouge, l’approccio alla musica e a questi strumenti è pieno di analogie con il caos della vita e con le situazioni di lavoro. Il basso rappresenta il lavoro in team perché quando ho lavorato come direttore è stato proprio come lavorare in una rock band, il pianoforte indica le situazioni in cui ci sentiamo al di sotto di quello che stiamo facendo e in cui non ci sentiamo all’altezza, la tromba è invece uno strumento legato all’anima, la tromba non suona se non abbiamo qualcosa dentro che la fa suonare, quindi metaforicamente è molto collegata a quanto noi dobbiamo trovare la nostra voce per poter fare qualcosa, per poter seguire la nostra strada. Il libro è diviso dunque in tre parti (pianoforte, basso e tromba) all’interno delle quali ci sono vari capitoli che sono biografici e in cui ci sono tanti esempi e ispirazioni che portano, spero, ad amare le proprie imperfezioni. E’ un saggio che dedico a tutti coloro che si sentono imperfetti, perché l’imperfezione porta ad essere più creativi e più originali. Quando suoniamo integriamo più facilmente le imperfezioni, quando lavoriamo è più difficile: racconto per esempio un episodio nel libro in cui durante uno degli ultimi colloqui per diventare direttore di Cosmopolitan ho fatto un’enorme gaffe perché alla domanda “qual è un tuo pregio e un tuo difetto?” al peggior difetto ho risposto che sono pigra, però mi ero resa conto che nel momento in cui lo avevo detto a un team di americani, per cui l’efficienza è al primo posto nella scala di valori, mi ero giocata tutto. Nella fase successiva, quando li ho incontrati a New York, mi hanno detto che la cosa che li aveva convinti al 100% era stata la risposta che avevo loro dato dicendo che ero pigra perché ero stata sincera ma anche perché la loro lettura è stata di una persona con molta autostima e molto sicura di sé perché non avevo avuto paura (anche se per me è stato l’opposto) di parlare di un mio difetto. Cito questo episodio nel libro dicendo che molte volte pensiamo di sbagliare però in realtà mettendoci dall’altra parte della telecamera gli altri non percepiscono le cose come le percepiamo noi.
Come stanno andando le presentazioni del libro? Sei contenta di averlo presentato al Circolo dei Lettori di Torino?
Stanno andando bene, per adesso ho fatto due presentazioni (il libro è uscito a fine novembre): Milano e Udine, che è la mia città natale, quindi ci tenevo tantissimo, lì è stato veramente fantastico. L’ho presentato a Torino e farò altre presentazioni a Bologna, a Parma e in Toscana. Farò un piccolo tour, che in realtà non era programmato. Per quanto riguarda Torino, è stato Luca Vicini stesso (bassista dei subsonica, ndr) a dirmi che gli avrebbe fatto molto piacere presentare il mio libro e io ne sono stata molto contenta perché è davvero una persona interessante e profonda. Sono felicissima di questa presentazione a Torino, una città che è comunque legata alla mia vita perché ci sono stata per moltissimi anni a Natale, ho sempre avuto gli zii e, prima, i nonni lì. Torino è una città che lego alla mia storia e alla mia famiglia anche se non ci ho mai vissuto, però ho dei ricordi molto belli.
Ti ringrazio moltissimo per questa intervista.
Sono felicissima, grazie a te.
Alessandra Picciariello
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