L’Italia è da sempre conosciuta nel mondo per la sua ampia tradizione culinaria, per la pizza e più in generale per la dieta mediterranea. Effettivamente nel nostro paese l’attenzione al cibo e all’alimentazione è un argomento sempre attuale: negli ultimi anni abbiamo assistito alla creazione di moltissimi programmi televisivi, blog e altri format incentrati sul cibo e diventati sempre più virali.
Da secoli legati alle nostre tradizioni alimentari, abbiamo recentemente iniziato ad aprirci, anche per via della globalizzazione, a mercati sempre più ampi, in grado di offrirci tutto ciò che desideriamo, quando lo desideriamo. Il cibo rimane però anche un marcatore delle differenze culturali. Nonostante questa apertura, infatti, restiamo spesso interdetti da alcuni alimenti che sono al di fuori di quella che potremmo definire la nostra comfort-zone alimentare: dal nostro punto di vista sarebbe impensabile mangiare grilli, ma nonostante ciò dal 23 gennaio il mercato europeo si è aperto alla loro commercializzazione, scatenando non poche proteste.
Ma perché ci scandalizziamo così tanto per la farina di grilli e non per mucche, conigli o polli? Si tratta di un tabù alimentare, cioè di una proibizione, solitamente culturale o religiosa. In ogni parte del mondo e fin dall’antichità il consumo di carne è stato oggetto di comportamenti rituali che avevano lo scopo di fondo di trasformare gli animali in semplice “carne” ed “ossa” per giustificarne il consumo. I tabù alimentari sono molto più frequenti di quanto si creda, basti pensare al divieto di consumare carne suina per la religione musulmana o al fatto che nei paesi anglosassoni sia assurda l’idea di consumare carne equina o di coniglio.
Ma da dove nascono questi tabù alimentari? Non esiste, come spesso accade, una risposta univoca; quello che è certo è che spesso l’origine è una credenza religiosa, a sua volta legata a ragioni di altro tipo (salutari, ambientali ed economiche).
Levi-Strauss sosteneva che parlare di cibo significa parlare di cultura e di società, poiché queste ultime non vengono mai escluse quando si pensa all’alimentazione; la percezione di ogni alimento è influenzata, secondo l’etnologo francese, da quello che lui definisce “gusto collettivo”.
Sarebbe proprio quest’ultimo a influenzare i nostri parametri alimentari e la percezione di cosa è buono e giusto mangiare, e cosa è invece preferibile evitare. La nostra alimentazione sarebbe quindi fortemente influenzata dai fattori ambientali, culturali e storici con cui entriamo in contatto.
Ecco perché ad un italiano sembra impensabile, nel 2023, mangiare prodotti che contengono derivati da grilli, anche se nella stessa giornata ha tranquillamente consumato carne proveniente da maiali o polli. Il maggior ostacolo a cui ci troviamo di fronte, quando si parla di consumo di insetti, è il pregiudizio culturale.
Si pensa che nel 2050 la popolazione mondiale supererà i 9 miliardi di persone; le terre coltivabili e le risorse del nostro pianeta sono sempre meno, e l’inquinamento provocato dall’allevamento su larga scala non fa che peggiorare la situazione. Secondo la FAO sono oggi più di 800 milioni le persone che soffrono la fame, e 2 miliardi quelle che fanno già uso di insetti a fini alimentari.
Il punto di forza della produzione di alimenti contenenti insetti sembra essere proprio la sostenibilità, affiancata alla necessità di variare la dieta e ridurre il consumo di carne e l’impatto ambientale. Gli insetti potrebbero diventare una valida alternativa agli animali, poiché sono altamente nutrienti (basta vedere le quantità di proteine) e paragonabili (nutrizionalmente) a carne e pesce, ma è ancora impossibile sapere se e quando gli italiani saranno in grado di superare i propri tabù alimentari.
Jessica Pons