Infuriano le polemiche dopo le ultime dichiarazioni del Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, che il 26 gennaio ha affermato, durante un incontro organizzato dal Gruppo GEDI, che “la scuola pubblica ha bisogno di nuove forme di finanziamento, anche per coprire gli stipendi degli insegnanti, che potrebbero subire una differenziazione regionale in base al diverso costo della vita. E per trovarle si potrebbe aprire ai finanziamenti dei privati”.
Nel polverone generale sollevato dal dicastero, traspare la scia di un dardo bilaterale scoccato al cuore della scuola pubblica, un attacco studiato che non ha lasciato indifferenti i sindacati: “un’idea strampalata”, che riporta l’Italia alle gabbie salariali di sessant’anni fa, secondo il segretario Flc CGIL Francesco Sinopoli. Una scelta quanto mai sibillina per il ministro, professore di Diritto Romano, che fino a dicembre scorso affermava di essere contrario alle diversità regionali di stipendi, forse trascinato dal vento di novità dei propositi per l’anno nuovo. Un modo come un altro per non aumentare le risorse del contratto nazionale, tradendo – ma con una certa eleganza e originalità – le promesse della campagna elettorale targata Meloni, che prevedeva un progressivo allineamento degli stipendi del corpo docente alla media europea, obiettivo ancora molto lontano. Inoltre, l’inchino alle aziende spaventa una parte dell’opinione pubblica, che teme per l’indipendenza della scuola e della ricerca di fronte al mecenatismo del privato.
Intanto, il DDL Manovra del 2023 mentre sembra avere dimenticato, come afferma il segretario Uil Scuola Giuseppe d’Aprile, di affrontare le questioni del precariato, del numero di studenti per istituto e dei concorsi, non ha tardato, invece, a confermare il taglio alla scuola pubblica da 4 miliardi di euro entro il 2025, previsto da Draghi per far fronte alla denatalità. La riduzione del numero complessivo degli studenti, che tra dodici anni coinvolgerà circa 1,3 milioni di individui, poteva essere un’occasione importante per affrontare il problema delle classi pollaio, ma il governo sembra avere altre priorità, come, ad esempio, il finanziamento delle scuole paritarie, più che duplicato in dieci anni: dai 286 milioni stabiliti nel 2012, nel 2017 il budget è salito a 500 milioni, poi a 556 milioni con il governo Draghi e, infine, a 626 milioni con Valditara, che ha stanziato quest’anno 70 milioni aggiuntivi per gli istituti “non statali”. Una delle paladine della causa delle scuole paritarie è Mariastella Gelmini, ex Ministro dell’Istruzione responsabile dei tagli da 10 miliardi alla scuola pubblica e all’Università tra il 2008 e il 2012.
L’unica grande assente nella Legge di Bilancio pare proprio essere l’istruzione pubblica, dal momento che non si registrano nuovi finanziamenti per la valorizzazione delle eccellenze, per il sostegno alle famiglie per il diritto allo studio degli studenti bisognosi e per la lotta alla dispersione scolastica, oggi al 12,7%, con punte del 21% in Sicilia e del 18% in Puglia. E se noi italiani ci lamentiamo di essere sempre in fondo alle classifiche europee nel campo dell’istruzione – come nel caso della percentuale nazionale dei laureati, che ci regala un sonoro penultimo posto – svettiamo, invece, in quella sull’analfabetismo funzionale elaborata nel 2019 dall’OCSE, che attesta che il 27,7% dei cittadini dello stivale tra i 16 e 65 anni non è in grado di comprendere e valutare in maniera idonea le informazioni che quotidianamente elabora.

Dante scrisse nel Convivio che la felicità, fine naturale a cui tendono tutti gli uomini, consiste nella conoscenza, nella possibilità di sedere alla “mensa del sapere”, dove lo pane de li angeli si manuca (“dove si mangia il pane degli angeli”). Sebbene sia difficilissimo (se non impossibile!) stabilire per quale partito avrebbe votato oggi Dante, pare che questo governo, più che il poeta della Commedia, abbia scelto come guida un modello molto più vicino al presente, firmato Tremonti e Gelmini: con la cultura e con l’istruzione non si mangia.
Micol Cottino