Dopo quasi trent’anni di latitanza la fuga di Matteo Messina Denaro dalla giustizia è finita in una clinica privata di Palermo, il 16 gennaio 2023.
Il mafioso, uno dei leader di Cosa Nostra, era in cura per un tumore al colon da circa due anni, sotto il falso nome di Andrea Bonafede. Lo attendono le condanne a diversi ergastoli, da scontare in regime di 41 bis.
È stata proprio la malattia a far uscire le indagini da un lungo stallo (se non si conta l’arresto, avvenuto all’Aia nel 2021, di un turista inglese scambiato per il latitante, su indicazione della procura di Trento): dopo aver scoperto dello stato di salute alterato di Messina Denaro da alcune intercettazioni, gli inquirenti hanno cercato nelle liste dei pazienti oncologici nomi che potessero celare l’identità del boss mafioso, come appunto quello di Andrea Bonafede, incensurato ma nipote di un condannato per delitti legati a Cosa Nostra. Da lì la scoperta che Bonafede non era a Palermo nei giorni in cui la sua cartella clinica riportava interventi e visite, e il consolidarsi della pista dell’identità prestata al latitante, fino all’azione del 16 gennaio, con i carabinieri del ROS che circondano l’edificio e un agente che domanda a un sessantenne in coda per un tampone Covid quale sia il suo nome. La risposta: “Io sono Matteo Messina Denaro”, l’uscita dal palazzo verso un furgone nero delle forze dell’ordine, gli applausi dei passanti hanno chiuso il capitolo dell’impunità della mafia stragista, consegnando alla giustizia il suo ultimo responsabile rimasto in libertà.
Originario di Castelvetrano, in provincia di Trapani, Matteo Messina Denaro nasce in una famiglia affiliata a Cosa Nostra e inizia a farsi notare quando il padre entra in latitanza e gli affida la gestione delle sue attività, intorno al 1990. Nel 1993 Salvatore Riina, di cui è diventato un collaboratore fidato, è arrestato: il suo posto come leader è preso da Messina Denaro, che sceglie di portare avanti la serie di attentati dinamitardi e omicidi iniziata in risposta al maxiprocesso di Palermo e già responsabile dell’assassinio dei giudici Falcone e Borsellino. Nei mesi successivi esploderanno le autobombe di via dei Georgofili a Firenze (5 vittime, gravi danni alla Galleria degli Uffizi), via Palestro a Milano (5 vittime e il crollo di parte del Padiglione di Arte Contemporanea), San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro a Roma (22 feriti). Negli stessi giorni Messina Denaro è visto per l’ultima volta, in vacanza a Forte dei Marmi. A novembre dello stesso anno sarà tra i responsabili del rapimento di Giuseppe di Matteo, dodicenne figlio di un collaboratore di giustizia che sarà ucciso e sciolto nell’acido nel ‘96.
La sua strategia per Cosa Nostra, non pienamente apprezzata da Riina (come emerge da registrazioni di sue conversazioni in carcere), è stata quella della mafia imprenditrice: interessata a fare soldi, coinvolta in operazioni di riciclaggio e investimenti in attività lecite, strettamente legata agli ambienti borghesi e, forse, anche alla massoneria.
Durante la latitanza Messina Denaro comanda tramite “pizzini”e grazie all’intercessione della sorella Patrizia (arrestata nel 2018 per associazione mafiosa ) e, si è scoperto, vive almeno nell’ultimo periodo una vita quasi normale, mostrandosi liberamente in pubblico a Campobello di Mazara.
Dopo l’arresto, avvenuto grazie a quello che Teo Luzi, comandante dei Carabinieri, definisce “il metodo Dalla Chiesa”, cioè l’accumulo e lo studio di una quantità enorme di dati, le attenzioni delle forze dell’ordine si sono spostate sulla rete di favoreggiatori e collaboratori che lo ha protetto per quasi tre decenni, a partire da quell’Andrea Bonafede i cui documenti Messina Denaro usava per curarsi, e che nel 2022 ha acquistato per lui l’appartamento in cui ha abitato negli ultimi mesi.
Una vittoria dello Stato, dunque, ma anche la dimostrazione dell’ancora radicata esistenza di una complicità e di un’omertà pervasive nel nostro paese: se la premier Giorgia Meloni propone l’istituzione di una giornata della lotta alla mafia per il 16 gennaio (anche se esiste già quella del 21 marzo); don Luigi Ciotti, presidente di Libera, in un’intervista rilasciata all’«Avvenire» ricorda che “non si risolve tutto arrestando i capi”, e che per ottenere un reale progresso contro la criminalità organizzata sono necessarie azioni politiche che non sembrano essere prioritarie per la classe dirigente italiana.
Virginia Platini