PASIONARIE (IN)DIMENTICATE: la fotografia al servizio di un ideale

“Univa al sorriso di donna, il cuore di un eroe”. Scriveva André Chamson, scrittore francese nel 1937. “Il suo non era solo lavoro come pura meccanica, ma un’attività al servizio di una nuova umanità.” Sono le parole del poeta dadaista Tristan Tzara.

Ma chi è questa donna? Gerta Pohorylle, nata il 1° agosto 1910 a Stoccarda da una famiglia ebrea, che passerà alla storia come Gerda Taro. Per anni il suo nome sarà associato alla figura di Robert Capa, il più grande fotografo di guerra della storia e la sua memoria non sarà nient’altro che un’ombra.

Le cose cambiano nel 2018 quando l’ex militare britannico John Kiszely pubblica su Twitter una fotografia. Un giovane medico assiste una donna agonizzante. L’uomo nella foto è Janos Kiszely: fa parte delle Brigate internazionali contro Franco, padre di John Kiszely. La donna invece è Gerda Taro, che, grazie a questa fotografia, sarà riscoperta o per meglio dire scoperta per la prima volta. È una fotografa. Ma non una fotografa qualunque: la prima donna reporter di guerra, che scatta le sue fotografie al fronte, in mezzo agli orrori dei combattimenti e al frastuono delle bombe.  

La sua vocazione per la fotografia però non è innata. Nel 1929 la famiglia si trasferisce a Lipsia e qui Taro entra in contatto con gli ambienti della sinistra europea. Cresce in lei l’esigenza di combattere per la libertà, lotta che la porterà ad essere anche arrestata ed incarcerata. Dopo la scarcerazione lascia la Germania ed emigra a Parigi. Qui incontra Robert Capa, che la inizia alla fotografia e che diventerà il suo compagno di avventure e di vita. Nell’estate del 1937 partono insieme per la Spagna come reporter di guerra della guerra civile spagnola.

Taro cattura gli sguardi delle famiglie fuori dagli obitori in attesa di notizie sui propri cari, mostra le donne spagnole che combattono a fianco degli uomini, i visi delle vittime e il vero volto della morte, in modo diretto, senza filtri. Sarà in una di queste battaglie, nella battaglia di Brunete, che il 26 luglio 1937 Gerda Taro perderà la vita. Da quel 26 luglio il suo ricordo comincerà a sbiadire e le sue foto saranno attribuite a Capa.

La nostra seconda protagonista, Tina Modotti, condivide lo spirito rivoluzionario e antifascista di Gerda Taro e purtroppo anche l’oblio della sua memoria. Nasce a Udine il 16 agosto 1896 da una famiglia modesta di operai. A dodici anni è costretta a lasciare la scuola per contribuire al sostentamento della famiglia. L’anno di svolta della sua vita è il 1913 quando lascia l’Italia per raggiungere il padre a San Francisco. Qui inizia la storia della vera Tina Modotti: vive a pieno l’energia e l’euforia dei ruggenti anni ’20, si avvicina al teatro e recita ad Hollywood. Conosce personalità di spicco come il fotografo Edward Weston da cui apprende le basi della fotografia. Ben presto svilupperà il proprio stile utilizzando la fotografia come strumento di indagine e denuncia sociale.

Con la sua macchina fotografica comincia a girare il Messico e fotografa la realtà nuda e cruda, le mani sporche dei lavoratori, il disagio sociale dei più poveri, le speranze illusorie dopo la rivoluzione del 1910. La fotografia è l’unico mezzo di comunicazione che le permette di arrivare a tutti, che permette di far arrivare un messaggio anche agli analfabeti, agli ultimi. Non vuole che le persone la considerino “un’artista” perché il suo lavoro non è arte, ma attivismo politico, una testimonianza vera di un mondo crudele. “Mi considero una fotografa e nient’altro”. Lei voleva essere questo. Una combattente, una comunista rivoluzionaria, una donna al servizio di un ideale.

Queste sono le storie di due donne pioniere della fotografia, ma soprattutto di due pasionarie, rivoluzionarie appassionate e tenaci. Storie dimenticate e riscoperte perché come scrisse Pablo Neruda nell’epitaffio dedicato a Tina Modotti “il fuoco non muore”. Con la speranza che questo fuoco non muoia mai, bisognerebbe ricordarsi di queste donne che hanno dedicato la loro vita ad una causa persa, ma giusta.

Lorenza Re

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