“Io non lavoro più”: la vita lavorativa della Gen Z raccontata sui social media

Cover del video YouTube “Io non lavoro più” (Frank Gramuglia)

“Ho fatto di tutto. Poi ho pensato che fosse meglio non lavorare. Ad oggi ho un unico obiettivo: non voglio più tornare a lavorare in ufficio.”

Frank Gramuglia

Queste le parole di Francesco Gramuglia, tiktoker di successo che con il suo modo ironico e schietto fa divertire il web. Frank Gramuglia ha raggiunto cifre da capogiro nell’ultimo periodo, con oltre 1,8 milioni di followers su TikTok e la sua canzone, “Non Lavoro Più”, in trend da diverse settimane.

Il suo caso di comunicazione è solo uno dei tanti che mostra come viene raccontata la vita lavorativa sui social media: una narrazione fatta di insoddisfazione e incertezza, volta a rappresentare una parte dello scenario lavorativo che oggi possiamo trovare in Italia.

Nei suoi video possiamo vedere come Frank non sia contento dell’ambiente lavorativo che lo circonda: il tiktoker racconta di un sistema malsano che avvantaggia chi fa meno, e mette in difficoltà chi produce e lavora con impegno; dove chi studia tanto, alla fine, finisce per fare comunque un lavoro per cui la scuola non lo ha preparato, con aspettative di vita molto limitate e con la sempre più frequente possibilità di compromettere la salute mentale delle persone, fino al burnout.

Questa rappresentazione fa male a un’Italia che dovrebbe ripartire dal lavoro: dopo due anni di completo stop delle attività lavorative causate dalla pandemia e una guerra ancora in corso, questo pessimismo cinico si diffonde all’interno della società e racconta il bisogno che le nuove generazioni cercano di esprimere ai loro futuri datori di lavoro. 

La Gen Z (Generazione Z) rispetto alle precedenti è molto più sensibile alla questione di equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, che in inglese prende il nome di work-life balance: le persone non vogliono più vivere per lavorare, ma desiderano che il lavoro sia solo una parte di quella che è la loro vita. Una vita in cui il lavoro deve prendersi il suo spazio, bilanciato alle proprie passioni e hobby, allo svago e al riposo. Questa è la richiesta che la Gen Z, con i suoi strumenti e i suoi linguaggi, sta facendo alle aziende, in controtendenza rispetto a quella che è la hustle culture, ovvero la cultura stacanovista che spinge le persone a dedicare interamente la loro vita al lavoro. 

Secondo il report State of the Global Workplace 2022 di Gallup, in Europa solo il 14% dei dipendenti si sente coinvolto all’interno della propria attività lavorativa: numeri che non sono incoraggianti e che trovano un loro riscontro sui social network, dove invece l’hashtag #quietquitting – lanciato su TikTok la scorsa estate – ha raggiunto 412 milioni di visualizzazioni.

Con quiet quitting non si intende solo un “abbandono silenzioso” delle abitudini lavorative che risultano essere tossiche, ma ha a che vedere con le dinamiche organizzative dell’azienda, e con il ripensamento profondo del modo di approcciare e vivere quotidianamente la propria professione.

Questo fenomeno ha vita facile sui social media perché riesce a creare in fretta nell’immaginario della Gen Z una polarizzazione in cui è facile riconoscersi: i giovani sfruttati e deboli dalla parte degli “eroi”, e le aziende brutte e cattive che guardano solo ai loro interessi.

La realtà è invece molto più complessa: sta alle future generazioni comprendere tutto questo e andare più a fondo, analizzando le motivazioni e i criteri di alcune scelte politiche e aziendali, per capire che la work-life balance è possibile, nel momento in cui c’è un equilibrio in noi stessi: solo così potremo trovare un equilibrio anche negli altri.

Erika Bruno

Crediti immagine di copertina: https://www.youtube.com/watch?v=4eGsyER25ZU

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