Revolution of our Times: “tutti sono nessuno, nessuno è tutti”

È l’alba ed è ancora buio: nella sfavillante e moderna metropoli di Hong Kong un ragazzino sgattaiola via di casa presto per raggiungere i suoi amici. Non si tratta di marinare la scuola, ma di qualcosa di molto più serio. In spalla uno zaino, da cui estrae un cappellino, occhiali, maschera anti-lacrimogeno, guanti… Deve fare in fretta e spera di finire in tempo per quando inizia la scuola, altrimenti i suoi genitori se ne accorgerebbero. Si getta in strada e comincia a organizzarsi con i suoi compagni: tira fuori bombe di vernice, sposta gli spartitraffico, in attesa continua di una camionetta della polizia che potrebbe arrivare da un momento all’altro e porre fine a quella sua missione diventata ormai routine quotidiana. Perché protestare ad Hong Kong non è solo un richiamo politico: è una scelta di vita, con delle conseguenze.

È il 2019 quando ad Hong Kong viene varata una legge sull’estradizione dei condannati dalla giustizia nella Repubblica Popolare Cinese, che permetterebbe di poter estradare gli honkonghesi nella Cina continentale: ciò comporterebbe pene e detenzioni più severe per i cittadini di Hong Kong, oltre che una chiara violazione dell’indipendenza della città, già continuamente sotto scacco del governo di Pechino. È l’inizio di una guerra urbana senza sconti, una protesta violenta e irremovibile che ha trasformato una metropoli cosmopolita in un campo di battaglia politico e ideologico senza precedenti. Revolution of our Times, oltre ad essere lo slogan portante delle proteste nella città, è il titolo di questo potentissimo documentario diretto da Kiwi Chow, già celebre per l’acclamato Ten Years (2015). Se nel precedente film il regista dava una visione futuristica della città e di cosa ne sarebbe stato quando la privazione di diritti e libertà sembrava già incombente, con quest’ultima opera quel futuro “distopico” è ormai tristemente realizzato: non è più l’ora dei se o forse, ma dell’agire, del documentare le rivolte in strada, la violenza e la repressione della polizia, ma al tempo stesso la tenacia e la speranza di una città che non si vuole arrendere.

Locandina del documentario
(fonte: imdb.com)

Dalla Rivoluzione degli Ombrelli al PolyU

Il documentario ripercorre in modo perfettamente diacronico le cause e gli eventi che hanno portato Hong Kong a diventare un luogo in cui barricate, lacrimogeni e molotov lanciate in aria sono la norma. Questa situazione ha avuto inizio ben prima del varo della legge sull’estradizione, e sono riconducibili al 1997, ovvero alla restituzione della città alla Repubblica Popolare Cinese da parte della Gran Bretagna, che sanciva la fine del periodo coloniale occidentale. Hong Kong si è subito vista minacciata da un’altra dominazione, forse ancora più temuta: quella della Repubblica Popolare Cinese. Il modello “un paese due sistemi”, che vede Hong Kong come parte della grande potenza asiatica, ma con un governo autonomo (non casualmente Hong Kong è una “regione amministrativa speciale”) non è mai davvero valso per la Cina, e non si è mai riscontrato nei fatti. Le libere elezioni del proprio governo, una delle clausole fondamentali dell’accordo preso durante la restituzione, sono sempre state rimandate, e tutt’oggi la città di Hong Kong non gode del suffragio universale. Un senso di privazione e ingiustizia che ha movimentato i cittadini fin dal principio.

Manifestante durante la Rivoluzione degli Ombrelli nel 2014
(Fonte: time.com)

Le prime significative proteste si verificano nel 2014 con la cosiddetta “Rivoluzione degli Ombrelli”, in riferimento alla folla di protestanti muniti di ombrelli per difendersi dai lacrimogeni e dagli attacchi della polizia. Portata avanti dal gruppo pro-democrazia e del movimento studentesco, di cui sono ben noti i nomi di Joshua Wong, Nathan Law e Alex Chow (successivamente arrestati e detenuti) fu eclatante per la durata, ben 79 giorni, e per le migliaia di persone che hanno occupato le strade della città. Dopo varie condanne, la protesta si disperse, ma non la lotta e le rivendicazioni, che bruciano latenti fino alla scioccante e triste svolta del 15 giugno 2019: il suicidio di Marco Leung Ling-kit, un cittadino che decise di buttarsi pubblicamente dal tetto di un centro commerciale in segno di protesta verso la nuova legge sull’estradizione. Le immagini di quest’uomo di spalle, con l’impermeabile giallo e un telone con su scritto “No extradiction to China” prima di cadere a terra, diventano indelebili, un simbolo della necessità di agire per molti che, fino a quel momento, non avevano avuto il coraggio di insorgere. Il suo gesto ebbe un tale funesto impatto da causare addirittura altri suicidi da parte di attivisti.

Commemorazione della morte di Marco Leung Ling-kit, con l’impermeabile giallo diventanto simbolo della lotta
(Fonte: Wikimedia Commons)

Da tale avvenimento la lotta cambia radicalmente: la divisione esistente nel movimento tra “pacifici” (propensi alla protesta non violenta) e gli opposti “audaci” si dissolve sempre più. La repressione della polizia si fa sempre più opprimente e crudele, tanto da giungere alla collaborazione di persone appartenenti alla malavita e a strani casi di “suicidio” che fanno sospettare qualcosa di ben più oscuro. L’aberrante indifferenza del governo della città di fronte a questo suicidio estremo non ha fatto altro che accendere la miccia. E così il documentario ci mostra le successive azioni significative che in questi ultimi anni hanno messo a ferro e fuoco l’intera città: l’occupazione del Legco (il Consiglio Amministrativo, cuore del governo), i tre scioperi per bloccare la città, l’occupazione dell’HKU (l’Università di Hong Kong) e infine del PolyU (il Politecnico), particolarmente drammatica per le condizioni in cui si troveranno i manifestanti, finiti rinchiusi all’interno dell’edificio dalla polizia, sfiniti dai continui attacchi e costretti addirittura a tentare di fuggire scappando nelle fogne.

Be water, my friend.

Ciò che più sorprende di questo movimento e che emerge potentissimo durante la visione del documentario è l’altissimo livello di comunità e solidarietà che caratterizza migliaia di cittadini di una metropoli come quella di Hong Kong , in cui è facile al contrario sentirsi estranei l’un l’altro. “Ehi amico, hai bisogno di un passaggio?” è diventata una sorta di parola d’ordine per i cosiddetti “Parents Cars”, tutti coloro che si prestano a fare da taxista per gli attivisti durante le proteste e le azioni, salvandoli molto spesso da pestaggi e arresti della polizia. Per non parlare di veri e propri nuclei famigliari che si sono creati tra gli attivisti: molti di loro, soprattutto i più giovani, vengono cacciati di casa per la loro scelta politica e, ritrovandosi senza famiglia, vengono accolti in queste nuove case, dove potersi sentire accettati, dover poter condividere non solo valori e ideali, ma la vita di tutti i giorni.

Zio Chan insieme ad un giovane manifestante durante una protesta
(Fonte: https://gal-dem.com/hong-kong-film-festival-revolution-of-our-times/)

Un movimento organizzato ma profondamente eterogeneo al suo interno, sia per orientamento che idee, sia per età, tanto che comprende ragazzi che ancora frequentano la scuola così come anziani nel bel mezzo della pensione. In particolare uno di loro è diventato emblema della lotta intergenerazionale portata avanti dagli hongkonghesi, e che ha dato origine al progetto “Proteggiamo i nostri figli”: zio Chan, un arzillo agricoltore della periferia che, sconvolto dalle immagini di migliaia di giovani sparati dalla polizia, non ha potuto rimanersene con le mani in mano, scendendo in prima linea a fianco di ragazzini, per battersi con loro per un futuro che sia roseo quanto è stato il suo. Infine, colpisce l’organizzazione su vasta scala durante le azioni di protesta: il movimento parla di “Be water, my friend”, in riferimento alla celebre intervista dell’artista marziale Bruce Lee, in cui incita le persone ad essere fluide, malleabili, come l’acqua che si adatta ad ogni forma in cui è contenuta. Per i manifestanti è diventato motto e metafora del loro modus operandi: disperdersi per rendere più difficile alla polizia raggiungerli, e poi riunirsi, e separarsi e muoversi continuamente. Una delle immagini più potenti del film è proprio quella di un drone che dall’alto mostra l’orda di manifestanti che si muove tra le strade di Hong Kong, sfuggendo alla polizia come l’acqua in rivoli di un ruscello: come le persone fossero un tutt’uno, una forza dirompente quanto l’acqua che vuole spazzare via tutto ciò che incontra.

Cartello con il motto “Be Water”
(Fonte: twai.it)

Essere honkonghesi”

Se anche la protesta fallisse e le rivendicazioni non trovassero mai vittoria, nulla sarà più come prima. Perché se c’è un segno di speranza, una scia indelebile che ha cambiato per sempre la città e suoi abitanti è il nuovo senso di identità creato dal movimento. Una città come Hong Kong, dominata per così tanto tempo dal colonialismo inglese, e successivamente inglobata nella grande Cina popolare, di cui però non si è mai sentita davvero parte se non per ragioni linguistiche ed etniche, non ha potuto davvero formare un “sé”, una propria identità nella quale riconoscersi e definirsi, se non adesso che milioni di cittadini si sono uniti insieme per rivendicare la loro libertà. Hongkongers è il nome che viene dato ai produttori del documentario: ciò fa ben rendere l’idea di come dietro a quest’opera non si voglia solo documentare dei fatti, ma dare risalto ai suoi protagonisti; perchè come dicono gli stessi attivisti intervistati nel film “tutti sono nessuno, e nessuno è tutti”. Ogni singolo individuo, che sia qualcuno che porge una mano a un altro caduto o che sia il leader in prima fila con il megafono, è una persona qualunque, non un eroe, ma un “hongkongers” che difende la sua città. Ma, allo stesso tempo, questa moltitudine di nessuno forma un tutti, un “noi”, un’appartenenza per cui vale la pena lottare.

Rachele Gatto

Crediti immagine in evidenza: mymovies.it

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