Violenza di genere: la vittimizzazione secondaria

In copertina: corteo di Non Una di Meno

Tra le tante forme che la violenza di genere può assumere, ce n’è una di cui si parla molto a livello mediatico, ma che forse non tutti conoscono con il suo termine proprio: la vittimizzazione secondaria.
Di che cosa si tratta?

Che cos’è la vittimizzazione secondaria?

La vittimizzazione secondaria “si sostanzia negli ulteriori effetti negativi, a livello psicologico e sociale, che la vittima di reato subisce quando viene a contatto con le istituzioni” (Fonte: https://www.rivistaoidu.net/wp-content/uploads/2021/12/1_ITA_CEDU_3_2021.pdf) e prende il nome di secondaria in quanto viene dopo la violenza primaria già subita. Questo fenomeno può riguardare le vittime di ogni tipo di reato ma in realtà colpisce prevalentemente le donne che hanno subito una violenza di genere, in particolare una violenza domestica o sessuale. 

Dopo aver denunciato il fatto, sono tante le violenze, non più fisiche ma non per questo meno gravi, che la vittima è costretta a vivere. Le donne vengono poste al centro dell’attenzione mediatica, lasciate in balia del giudizio dell’opinione pubblica, trovandosi così costrette a dover giustificare ogni aspetto della loro vita privata: le scelte lavorative e di vita familiare, i comportamenti adottati per rispondere alla violenza e, nei casi di reati che riguardano la sfera sessuale, perfino l’abbigliamento indossato. Spesso la colpevolizzazione della vittima e i giudizi moralizzatori rivolti nei suoi confronti vengono espressi anche da quelle stesse istituzioni che avrebbero il compito di proteggerla. Ed è così che la donna diventa l’imputata nel procedimento penale sorto dalla sua stessa denuncia, costretta a ripercorrere le violenze subite, in modo talvolta umiliante, davanti a giudici ed avvocati. E sono poi proprio le autorità giudiziarie che, invece di decidere sul caso in modo imparziale e oggettivo, si basano su quegli stereotipi e pregiudizi legati al genere già presenti nella nostra società, che in questo modo non fanno che rafforzarsi e legittimarsi.

Nella nostra cultura la figura della vittima è stata idealizzata e mitizzata, fino a creare quella che, già negli anni ‘80, Nils Christie chiamava “ideal victim”, la vittima ideale. Questo termine viene utilizzato dal sociologo per definire una persona che, in seguito al reato o alla violenza subìti, viene subito riconosciuta dalla società come vera vittima: per ottenere questo status, però, il soggetto deve possedere alcune caratteristiche quali impotenza, passività e rispettabilità. Chi non risponde a questa descrizione avrà invece molta più difficoltà a farsi credere, e la sua vita verrà scrutata e analizzata nel profondo per determinare una sua responsabilità nell’azione subita, e poter infine affermare: “se l’è cercata”.  

La situazione in Italia

Il problema della vittimizzazione secondaria trova le sue radici all’interno di un clima socio culturale maschilista e carico di stereotipi legati al genere, una definizione che purtroppo descrive ancora oggi la situazione nel nostro Paese. Con una recente sentenza del maggio 2021, infatti, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) ha condannato l’Italia proprio per un caso di vittimizzazione secondaria. La Corte EDU è l’organo giurisdizionale che monitora sull’attuazione delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nata nel 1950 in seno al Consiglio d’Europa. Oggi la Convenzione, pur non avendo un articolo riguardante la protezione dei diritti della donna nello specifico, è uno degli strumenti internazionali più usati per combattere la violenza di genere, e dalla giurisprudenza della sua Corte ha origine la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, nota come Convenzione di Istanbul

Per quanto riguarda il caso nello specifico, la donna, J. L., denuncia di aver subito, da sette uomini suoi amici e conoscenti, una violenza sessuale di gruppo, mentre lei era in stato di alterazione dovuto all’uso di sostanze alcoliche. In primo grado i ragazzi vengono condannati per aver indotto una persona in stato di inferiorità fisica e psichica a compiere e subire atti di carattere sessuale ma, dopo essere ricorsi in appello, vengono assolti perché il fatto non sussiste. Le motivazioni dell’assoluzione, secondo la Corte EDU al quale la giovane si rivolge per chiedere giustizia, sarebbero “deplorevoli e fuori luogo”. All’interno delle motivazioni della sentenza, infatti, la Corte d’Appello di Firenze fa riferimento a dettagli della vita privata della giovane non solo non attinenti ai fatti, ma anche ingiustificati e frutto di stereotipi e pregiudizi legati al genere. Vengono infatti ripercorsi la sua vita familiare, le sue relazioni passate, le sue scelte lavorative e perfino i vestiti – e la biancheria intima – indossati quella sera.

Per questa ragione lo Stato viene condannato dalla Corte EDU per la violazione dell’articolo 8 della Convenzione, relativo al diritto alla vita privata e familiare, in quanto non sarebbe stato in grado di proteggere l’integrità personale e morale della giovane, sottoponendola proprio al fenomeno della vittimizzazione secondaria

Marta Fornacini

La serie di articoli “Violenza di genere” prende ispirazione dalla dissertazione finale di laurea triennale della redattrice: “Il fenomeno della vittimizzazione secondaria: la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo per il caso J. L. c. Italia.

Qui potete trovare la sentenza della Corte EDU in versione integrale, tradotta in italiano: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?contentId=SDU339116&previsiousPage=mg_1_20

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