Hijra: tra transgender e sacralità

In occasione del Pride Month è bene aprire la nostra prospettiva di genere verso orizzonti più lontani, per scoprire le diverse declinazioni di movimenti, sviluppatesi intorno a un’identità di genere contraria alla normatività eterosessuale e al bipolarismo uomo/donna.

E se non avete mai sentito parlare di Hijra, forse questo è il momento adatto.

(Crediti: Youth ki Awaaz)

Hijra è il termine con cui si indica una vasta comunità transgender diffusa principalmente in India, Pakistan e Bangladesh, definita da molti come “il terzo sesso o genere”: è una subcultura che sfida le idee occidentali di sesso e di genere, talvolta eludendo la sua stessa classificazione. Si tratta, infatti, generalmente di uomini che si riconoscono nel genere femminile, si vestono e s’identificano come tali, ma può anche trattarsi di individui che non si riconoscono in alcun genere definito. Così come alcuni appartenenti della comunità presentano addirittura una difficile identificazione dal punto di vista sessuale, presentando organi sessuali primari e/o secondari indefiniti (la cosiddetta intersessualità o l’ermafroditismo).

Gli Hijra hanno fatto parte della società indiana per molta parte della sua storia: si rintracciano dei riferimenti letterari già all’epoca dei Veda – il corpus letterario più importante della tradizione filosofico-religiosa indiana –, così come li vediamo nominati all’interno di grandi opere quali il Ramayana e il Kama Sutra.

Pur essendo motivo di vergogna e non accettazione da parte delle famiglie, questi individui sono stati generalmente sempre integrati nel tessuto sociale, soprattutto in virtù di un’importantissima funzione da loro svolta: quella del badhai, una sorta di benedizione e regalo di congratulazioni in occasione delle nuove nascite e di altri eventi pubblici, come matrimoni e festività. La loro peculiare appartenenza di genere era simbolo, non solo quindi di un diverso stile di vita e  di orientamento sessuale, ma aveva una vesta sacra, tanto che venivano pagati per dispensare tali benedizioni.

Non a caso gli Hijra si costituiscono in comunità che potremmo definire religiose, chiamate gharana: queste sono guidate da un guru che trasmette ai propri chelas (discepoli) saperi, tradizioni e pratiche come canti e danze. Per entrare a far parte della comunità, gli adepti devono sottoporsi al nirvaan, un rito di iniziazione che prevede la castrazione, considerato molto pericoloso, oltre che essere illegale, ma allo stesso tempo estremamente sacro, poiché rappresenta appieno la propria transizione e appartenenza a una nuova identità.

Pur essendo per la maggior parte indù, molti Hijra praticano forme di religiosità sincretiche, contemplando elementi riconducibili ad altre spiritualità. La loro cultura è ricca di riti e la divinità a loro più cara è Bahuchara Mata, una figura legata profondamente alla transessualità, poiché si pensa che questa dea possa cambiare il genere delle persone. Gli Hijra possiedono addirittura una loro lingua, il Farsi Hijra, ispirato all’urdu e con un vocabolario unico ricchissimo, con termini che non derivano da nessuna della lingue parlate in Asia Meridionale.

La dea Bahuchara Mata
(Fonte: Wikimedia Commons)

Il periodo di dominazione Mughal fu l’epoca d’oro per la comunità Hijra: questi entrarono a far parte della corte imperiale come intrattenitori o all’interno dell’harem a servizio delle donne; veniva riconosciuto loro, dunque, un alto ruolo culturale e religioso. Tale condizione cambiò drasticamente con l’avvento del colonialismo britannico nel subcontinente indiano: lo sguardo occidentale, intollerante nei confronti di una “diversità” così distante dai canoni tradizionali, vista come pericolosa, non solo per la morale pubblica, ma anche per l’autorità politica coloniale, definì gli Hijra degli eunuchi, “prostitute innaturali“, una “presenza oscena” da dover estinguere.

Vennero accusati di essere persone “sessualmente deviate” e criminali, così come di rapire bambini e di operare castrazioni forzate. Tale intolleranza può essere rintracciata nel fatto che lo stile di vita, le abitudini sessuali e l’orientamento di genere degli Hijra erano una sfida a qualsiasi canone imposto e ciò portò gli Hijra a essere percepiti dagli inglesi come una minaccia all’ordine pubblico che avevano costituito. L’immagine della comunità ne fu progressivamente compromessa e minacciata, ma questo si tradusse in un’azione politica vera e propria con una campagna anti-Hijra facente parte del più grande CTACriminal Tribes Act del 1871, un’atto legislativo del governo coloniale volto a categorizzare e perseguire le comunità locali viste come criminali, ivi compresa quella degli Hijra.

Controlli, arresti, abusi e divieti portarono progressivamente a una vera e propria eliminazione culturale degli Hijra attraverso la loro scomparsa dalla scena pubblica. Tali misure furono soprattutto applicate nelle province del nord-ovest dell’India, dove la presenza coloniale era più forte e si temeva che una comunità come quella degli Hijra avrebbe compromesso l’idealizzazione della figura maschile. Interessante, invece, osservare come nelle province del sud la loro presenza fosse, sì vista come impura, ma non un problema da debellare. Come accadde per le caste, fu quindi soprattutto la presenza britannica nel subcontinente e la sua influenza dominatrice sulla cultura indiana a estremizzare dei caratteri che erano prima in equilibrio e a tracciare dei confini che prima non esistevano, cambiando profondamente l’assetto sociale.

Hijra all’epoca coloniale
(Fonte: Wikimedia Commons)

Per fortuna, l’eredità degli Hijra persiste ancora in tutto il subcontinente indiano, sebbene la sua condizione sociale sia rimasta danneggiata: povertà, marginalizzazione, accattonaggio e prostituzione costituiscono le poche possibilità di cui gli Hijra dispongono per poter vivere, frenati da uno stigma che non li abbandona.

Il mancato riconoscimento porta a un negato accesso a tutto ciò che riguarda la vita sociale: istruzione, impiego, alloggio, salute, migrazione… Da quando il 13 dicembre 2013 venne nuovamente criminalizzato il sesso omosessuale in India, gli Hijra furono colpiti da un’ondata estrema di attacchi e di violenze, sia fisiche che verbali, da parte soprattutto degli organi di polizia. E con l’intensificarsi e il riemergere di un certo fondamentalismo indù, dato soprattutto dalla presidenza di Narendra Modi, la discriminazione verso queste comunità è sempre più forte.

Per quanto nel 2014, la Corte Suprema di Delhi abbia legittimato l’esistenza di un terzo genere, i diritti non sono migliorati.

(Fonte: medium.com)

La persecuzione attuata dal governo britannico in epoca coloniale nei confronti della comunità Hijra illustra perfettamente come la regolamentazione sessuale fosse una forma di dominio coloniale potente: avere controllo sulla vita sessuale degli individui è un mezzo per definirli secondo i propri standard e, in tal caso, porre limiti e confini che aiutano a definire un “noi” e un “loro“. La stessa cosa avvenne ad esempio nell’AOI (Impero dell’Africa Orientale Italiana), dove l’influenza coloniale italiana andò a modificare tradizioni e usi matrimoniali antichissimi, stravolgendoli e intrepretandoli a proprio modo, creando fratture che ancora oggi persistono.

Un piccolo sguardo sulla comunità degli Hijra ci può far comprendere come la lotta per i diritti LGBTQIA+ sia intrinsecamente intersezionale: guardare a singoli scompartimenti non serve a nulla, c’è bisogno di comprendere come varie disuguaglianze, quali classe ed etnia, si mescolino con quella del genere, intrappolando le vite delle persone nell’odio, nella paura, nel pregiudizio, nella non libertà di potersi esprimere pienamente e di poter vivere pienamente.

Ciò vale ancora di più in un contesto come quello indiano, in cui gravano gravi disuguaglianze sociali e la suddivisione in caste. Dall’Italia all’India, e ben altrove, questo grido di rivendicazione si sta alzando sempre più, e ci fa capire come, per quanto diversi, siamo accomunati da lotte che possono sembrare distanti, ma forse non lo sono così tanto.

Avere coscienza del fenomeno di genere in altre parti del mondo, secondo altre culture e visoni non può che allargare ancor di più la nostra prospettiva, farci comprendere che non c’è nulla che si possa definire “normale“, “naturale” o “giusto” rispetto ad altro, ma soprattutto può aiutarci a trovare nuovi modi di collaborare, di lottare, di rappresentare un umanità che viene “messa da parte”.

Rachele Gatto

Crediti immagine in evidenza: medium.com

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