Il tema dell’opera d’arte perduta, caduta nell’oblio, che viene magicamente ritrovata dopo secoli e secoli affascina chiunque: non tanto per l’opera in sé, quanto per l’alone di mistero che la circonda, che affascina e incolla le persone ad un racconto a metà tra l’investigativo e la leggenda. Ma che succede quando l’opera in questione è un quadro attribuito a Leonardo da Vinci, ma di cui non vi è alcuna prova tangibile?
Il confine che separa i fatti dalle congetture e dal mito diventa flebile, si rischia di perdere il senso di ciò che è reale, e soprattutto di strumentalizzare ciò in nome del profitto.
È questo il caso del “Salvator Mundi”, raccontato nel recente documentario “Leonardo: il capolavoro perduto”, diretto da Andreas Koefoed e uscito in molte sale italiane nel mese di marzo: un viaggio avvincente e quasi surreale, che attraverso le testimonianze più disparate ripercorre le vicissitudini di questo dipinto, scoperto per caso e diventato forse il più celebre e controverso nella storia dell’arte.

(Fonte immagine: comingsoon)
“THE GAME OF ART”
Più ci si addentra nella vicenda, più si comprende come non si tratti solo di arte ed estetica: il film è uno sguardo insolito sull’odierno mercato dell’arte, celato ai non professionisti del settore, un mondo fatto non solo di storia e bellezza, ma soprattutto di denaro, interessi e profitto.
È stato un “gioco d’arte” che ha portato nel 2005 due commercianti d’arte, Alexander Parish e Robert Simon, ad acquistare per poche migliaia di dollari un quadro raffigurante il tema cristiano del Salvator Mundi, attribuito ad un discepolo di Leonardo da Vinci. Per le sue pessime condizioni viene affidato per un lungo lavoro di restauro alla celebre professionista Diane Dwyer Modestini. Durante tale processo, Diane viene folgorata da un’illuminazione: un particolare della bocca, molto simile a quello della Gioconda, la convince che si tratti di un capolavoro del Maestro stesso, andato perduto chissà come nel corso del tempo. Ma mancano delle prove storiche e nessuno ne ha certezza: come procedere quindi? I due acquirenti si rivolgono alla National Gallery di Londra, che a sua volta chiede il parere di alcuni fra i massimi esperti di arte di Leonardo: tra chi afferma senza dubbio che lo sia, chi è titubante, e chi accusa che il restauro sia troppo massiccio da renderne possibile un’autenticazione, nessuno osa confermare davvero. Ma qui avviene la svolta: la National Gallery nel 2008 decide di approfittare della risonanza che un quadro perduto di Leonardo avrebbe avuto sull’opinione pubblica e lo espone in mostra come quadro effettivamente attribuito al Maestro. La notizia fa il giro del mondo e il Salvator Mundi diventa una celebrità, tanto da essere definito con non poca ironia “la Monna Lisa maschio”.

(Fonte immagine: storicang )
“THE MONEY GAME”
Ed è così che dal fascino e dal mistero artistico si passa al denaro, che specialmente nel mondo dell’arte è opaco e non facilmente rintracciabile: ingenti acquisti d’asta sono protetti da anonimato, e grandi opere vengono nascoste e conservate nei cosiddetti freeport, porti franchi in cui ricchi businessman e magnati possono depositare e far transitare opere e beni senza alcun controllo e tassa. Il Salvator Mundi finisce proprio in uno di questi, anzi nel freeport più grande al mondo, quello di Ginevra, di proprietà del dealer Yves Bouvier. Egli lo rivende velocemente all’oligarca russo Dmtry Rybolovlev il quale però, scoperto di essere stato truffato poiché l’ha comprato ad un prezzo maggiore rispetto al suo valore, decide di venderlo alla celebre asta di New York, Christie’s. E qui accade l’impensabile: il quadro, che non era stato effettivamente certificato da nessuno essere un autentico Da Vinci, viene venduto alla cifra di 450 milioni di dollari, diventando l’’aggiudicazione più costosa nella storia dell’arte.

(Fonte immagine: ilsole24ore )
“THE GLOBAL GAME”
A questo punto non resta che una domanda: chi?
Proprio per l’opacità degli acquisti, il compratore rimane un mistero, tanto che pure la CIA tenta di risalirvi. Girano voci, ipotesi, ed emerge un nome: il principe saudita Mohammed Bin Salman.
Secondo il documentario questa mossa non sarebbe un semplice slancio d’amore e di passione per l’arte: si tratterrebbe addirittura di una mossa politica, che vedrebbe l’Arabia Saudita sfruttare in futuro questa opera come attrazione culturale, nel grande progetto di implemento turistico che negli ultimi anni vede il paese sempre più teso a rendersi accettabile da parte del resto mondo e che più che mai vuole rafforzarsi e prendere il proprio posto nella scacchiera globale; basti pensare al complesso di AlUla e alle opere avveniristiche nel deserto che si fondono ai monumenti archeologici, ormai diventati una delle destinazioni più ambite nel mondo del turismo.

(Fonte immagine: Wikimedia Commons )
La vicenda rimane incompiuta: nessuno sa effettivamente oggi dove sia il quadro, e per contro nessuno ha mai ancora potuto certificare con assoluta certezza che si tratti di un quadro del da Vinci. La sua storia iniziata nell’ombra ritorna all’oscurità, inghiottita da un mondo che detiene bellezze e beni che dovrebbero essere accessibili a tutti, salvaguardati, esposti come baluardo della storia della civiltà umana, e che invece diventano sempre più spesso cimeli per pochi, custoditi gelosamente in luoghi sulla carta inesistenti, alla mercé del prossimo avido compratore. La mancanza di giudizio e di attenzione che è stata posta di fronte a questo quadro è enorme, e la sua vicenda eclatante e quasi estrema fa emergere con tristezza la pochezza umana di fronte al profitto, che ha portato esperti, artisti, e persino un’affermata istituzione come quella di un museo, a strumentalizzare un’opera per il solo fatto di poter essere un capolavoro. Ci spinge a chiederci dove finisca davvero il confine tra ciò che vediamo e ciò che vogliamo vedere quando è sia la passione quanto l’arroganza e l’avidità a guidarci.
Rachele Gatto
Immagine in evidenza: Wikipedia