Spesso la mente ama viaggiare verso luoghi sconosciuti, si perde davanti alle cartine geografiche appese sulle pareti di scuola sognando mete irraggiungibili. Forse a tutti è capitato di volersi addentrare fra le dune del deserto nei momenti in cui sembra che la vita poco abbia da regalarci di così entusiasmante, o di avventurarsi verso la più sfiziosa Honolulu (cara anche a mago Merlino). Se tutto ciò risulta accattivante, dovete sapere che ci sono persone che, di questa voglia di partire e andare, ne hanno tratto una professione: non, badate bene, con lo scopo di far scoppiare il profilo Instagram di posti esotici e inesplorati, non per una toccata e fuga, giusto per poter dire “Guardate che bello! Lì, io, ci sono stato!”, un po’ stile comparsa nei film, ma per vivere un faccia a faccia con culture diverse. Un’immersione che prevede ostacoli, sudore e anche qualche sgambetto, perché, si sa, la vita non è liscia come la buccia della banana.
Di amore per culture diverse e posti non convenzionali ce ne parla una professionista del settore, l’antropologa Carolina Boldoni.
L’intervista
La formazione
Qual è stata la tua formazione?
Ho studiato inglese e portoghese all’Università Ca’ Foscari di Venezia, proseguendo con una magistrale in antropologia culturale sempre nello stesso ateneo: volevo occuparmi di lingue in modo più diretto, non limitandomi alla letteratura.
Ed è stata la scelta giusta, evidentemente.
Direi di sì! Mi ha permesso di intraprendere un viaggio di quattro mesi a Timor Est, durante il quale mi sono occupata di ricerca di campo finalizzata alla stesura della tesi per la laurea magistrale.
Sei molto attiva nel campo della ricerca, quali sono state altre esperienze?
Ho proseguito la mia formazione con il dottorato: sono stata accettata all’Università di Lisbona, in un programma definito “Antropologia politica e immagini della cultura e museologia”, in cui si applica lo sguardo antropologico agli studi sul patrimonio tangibile e intangibile. Il dottorato è durato 5 anni; il primo anno ho vissuto a Lisbona, mentre il secondo e terzo anno erano sul campo, di nuovo a Timor Est.
Di cosa ti sei occupata a Timor est?
Il mio compito consisteva nel comprendere quali aspetti potevano essere considerati patrimonio culturale tangibile e intangibile. Questo processo là sta ancora avvenendo, il governo sta definendo i siti e gli oggetti da patrimonializzare, ma la mia ricerca prevedeva anche di comprendere quanto gli abitanti ritenessero parte del loro patrimonio. Sicuramente interagire con la popolazione locale, con cui avevo già avuto a che fare nel 2013, è stato di grande aiuto. Ad aprile 2018 ho terminato le ricerche e da lì fino a dicembre 2020 mi sono dedicata alla lunga fase di scrittura.
Cosa intendi per patrimonio tangibile e intangibile?
In pillole, il patrimonio tangibile da noi sono i musei, mentre, spostandosi in un contesto non occidentale, i monumenti non esistono. Pertanto, si fa riferimento a oggetti, luoghi fisici, parchi naturali. Il patrimonio intangibile è costituito dalle tradizioni, dai luoghi che sono riconosciuti non solo per il loro ruolo come elementi naturali, ma anche per l’azione di modifica apportata dall’uomo, riconosciuti per l’importanza simbolica da chi vi abita.
So che recentemente hai vinto un bando in un’università portoghese, di cosa ti occuperai?
Per i prossimi tre anni lavorerò con un’équipe di ricercatori al fine di realizzare un museo sulla storia e sulla memoria del quartiere di Trafaria, vicino a Lisbona: erano alla ricerca di un’antropologa specializzata in patrimonio culturale intangibile, mia diretta competenza, e sono stata selezionata.
Il lato social di Carol.oide
Gran parte del tuo lavoro confluisce sulla tua pagina Instagram: Carol.oide. Ce ne parli?
Ho aperto un profilo Instagram dove parlo di antropologia e di come il metodo antropologico aiuti a osservare l’umanità. Offro percorsi di orientamento per chi vuol fare un dottorato e ho un podcast al riguardo, Ph.Diaries, in cui do consigli sulla scrittura accademica. Mi fa piacere dare una mano in tal senso: parlo sia di ricerca sia dei concetti fondamentali della mia disciplina.
In particolare, ti preme comunicare un messaggio? Quali aspetti ritieni siano importanti da considerare?
In realtà cosa mi interessa è evitare di dare la classica narrazione del posto esotico e con bambini scalzi, cerco di spiegare che in ogni contesto c’è complessità ed essa va indagata e compresa. Tendo a smorzare la presenza di pregiudizi, atteggiamenti di primitivismo e pietismo nei confronti di popolazioni non occidentali. Purtroppo ciò non aiuta né loro né noi ad apprendere le realtà di cui stiamo parlando. Il problema principale credo sia associare la povertà a una sorta di arretratezza culturale, morale e sociale che ci portiamo dietro dal colonialismo.
Per quanto riguarda il dottorato senza tabù, Ph.Diaries, di cosa si tratta?
Questo è il mio podcast in cui parlo di dottorato, che è il più alto grado titolo a livello universitario, attraverso cui puoi entrare nel mondo accademico. Ha la finalità di raccontare storie di persone che fanno il dottorato e il mondo della ricerca da una prospettiva nuova: è a più voci, tutte femminili, provenienti da ambiti diversi, che raccontano pro e contro dei dottorati, quali sono i traguardi che si raggiungono. “Senza tabù” perché nei dottorati molto spesso non si parla di problematiche relative alla salute mentale: spesso viene normalizzato il fatto di avere crisi, attacchi di panico. Tutte le persone con cui ho parlato in realtà hanno vissuto dei forti malesseri e stress; rendendomi conto di quanto fossero questioni comuni tra i miei colleghi, ci tenevo a dar voce a questi malesseri.
Curiosità
Come ti sei sentita lontana da casa?
In realtà non ho mai vissuto con troppo malessere il fatto di essere lontano da casa. Ho sempre voluto fortemente tutti i viaggi che ho fatto, a partire dall’Erasmus in Portogallo che mi sono pagata da sola: è stata la prima volta in cui mi sono impegnata a vivere con le mie risorse. Successivamente sono partita per Timor Est, concesso dai miei genitori, la prima volta fuori dall’Europa con nove ore di fuso orario.
C’è una foto bellissima sul tuo profilo: un biglietto speciale da parte di tua mamma…
La foto a cui fai riferimento risale al periodo in cui sono stata in Guinea-Bissau, la prima volta in Africa. A casa non mi hanno mai impedito di partire, anzi ho avuto una famiglia che mi ha incentivata a seguire i miei sogni, però ovviamente la nostalgia è sempre tanta. Quella volta mia mamma aveva approfittato di qualcuno che doveva venire a Bissau e aveva chiesto che mi venisse spedito questo biglietto, è stata una bellissima sorpresa.
Com’è stata l’esperienza in Africa?
Anche qui abbiamo una narrazione assurda del continente africano, in realtà è molto diversificato al suo interno. Il contesto mi ha davvero messa alla prova, lavoravo all’interno del carcere, parlando una lingua straniera che non conoscevo: è stata una bellissima esperienza. Ho messo a tacere molti pregiudizi che prima avevo sulle strutture carcerarie e sulle persone che ci vivono.
Hai fatto riferimento a pregiudizi riguardo al carcere; ti aspettavi una realtà diversa?
Ero partita con il presupposto che avrei visto delle persone dietro le sbarre, in realtà per fortuna nella maggior parte della giornata i carcerati potevano liberamente uscire all’interno della struttura. Quando vedi in faccia le persone non ti deve interessare perché sono lì, sarebbe un ostacolo. Ho apprezzato poi questa apparente informalità nei rapporti: quando c’erano molti peperoni, le guardie e il direttore se li portavano via; questi ultimi parlavano con i carcerati di argomenti quotidiani: della moglie a casa, l’orto che non dà i frutti, cosa si sarebbe mangiato a pranzo.
In che cosa consisteva il progetto in Africa?
Una delle finalità del progetto era di allargare il carcere, perché le celle erano molto piccole. Erano previsti alcuni corsi di alfabetizzazione (non tutti sapevano leggere e scrivere), altri lavoravano nell’orto adiacente. Il progetto fiore all’occhiello era il laboratorio per la preparazione dei metalli: si costruivano oggetti che sono stati venduti fuori dal carcere, in modo da rendere più sostenibile il progetto.
Come sei stata accolta dagli abitanti?
In generale ti riservano un’accoglienza speciale. D’altro canto, sarei falsa a dirti che tutte le persone mi hanno accolta bene, perché non è stato così. Parlando di coloro che mi hanno ospitata, davano per scontato che avendo una donna bianca a casa si dovesse cucinare carne almeno una volta a settimana. Infatti, quando mi hanno chiesto che piatti mi piacessero, ho risposto una zuppa locale che effettivamente era molto buona, non avrei mai chiesto la carne di mucca: costituiva una spesa difficile da sostenere e per loro è un privilegio mangiarla.
Da antropologa, qual è un aspetto che ritieni significativo della tua professione?
Sicuramente il fatto di aver avuto l’opportunità di fare molti viaggi, sono stati un privilegio e mi hanno consentito di plasmare una visione del mondo diversa da persone che sì hanno viaggiato tanto, ma non hanno avuto modo di immergersi nella cultura degli abitanti per un periodo relativamente lungo.
Questo è giusto un assaggio di ciò che la professione di ricercatore e antropologo può regalare di interessante e curioso. Non sempre quanto ci viene raccontato è la giusta versione del mondo che ci circonda. Scavare oltre la pellicola di pregiudizi, a volte una corazza rigida e dura da scalfire, è un modo per ampliare le proprie prospettive, per non fermarsi davanti alla prima impressione ma andare oltre, un’occasione per buttare giù i muri delle predeterminate stanze della nostra mente. Ogni tanto sarebbe opportuno rinfrescare e dare una pitturata a quello che è il laboratorio in cui vengono plasmate le nostre opinioni e i nostri punti di vista.
Federica Seni Ferreri