La Taverna del Santopalato e le formule futuriste

Crediti foto di copertina: https://betulla.eu/la-taverna-futurista-del-santopalato-torino-via-vanchiglia-2/

«Pur riconoscendo che uomini nutriti male o grossolanamente hanno realizzato cose grandi nel passato, noi affermiamo questa verità: si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia. […] Sentiamo inoltre la necessità di impedire che l’Italiano diventi cubico massiccio impiombato da una compattezza opaca e cieca.» tuonava Marinetti nel Manifesto della cucina futurista, pubblicato verso la fine del 1930.

Conoscendo il movimento non deve stupire come questi dettami siano velocemente passati all’azione attraverso banchetti e conferenze, fino all’apertura della Taverna del Santopalato, a Torino, in via Vanchiglia 2.  

Il locale venne progettato e decorato da Luigi Colombo, in arte Fillìa, e Nicolay Diulgheroff. Gli interni erano ovviamente lo specchio di tutto ciò che i futuristi andavano promuovendo da ormai un ventennio: fra colonne luminose, occhi metallici e pareti in alluminio, la taverna aveva più l’aspetto di un sottomarino da guerra che di una piola torinese.

Il cibo seguiva la stessa ideologia: la pasta era bandita, «assurda religione gastronomica italiana», considerata inferiore dal punto di vista nutrizionale a carne, pesce e legumi e causa di «fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo». Inoltre, secondo Marinetti, l’abolizione della pasta avrebbe liberato l’Italia dall’oneroso grano estero in favore del riso coltivato in patria. Eliminate anche le posate, che impedivano il piacere tattile, ed incoraggiato fortemente l’uso delle mani per qualsiasi tipo di portata. Inoltre, dato che l’esperienza avrebbe dovuto coinvolgere tutti i sensi, anche la musica aveva un suo ruolo, ma limitata per l’attesa fra una portata e l’altra, mentre dei ventilatori avrebbero dissolto gli odori delle portate precedenti.

Messo in chiaro cosa non aspettarsi al Santopalato, quale formula (Attenzione! Non ricetta, i futuristi abolirono anche questa parola, in favore di un termine più “chimico”) avremmo assaporato in una cena futurista? Sicuramente il Carneplastico, una complessa struttura ideata da Fillìa descritta come un’interpretazione sintetica dei paesaggi italiani. In poche parole: un grosso polpettone di vitello farcito da 11 verdure cotte, sostenuto da una base di salsicce bollite e polpette di pollo, il tutto abbondantemente irrorato di miele. Oppure, per un pasto ancora più leggero, un Pollo d’acciaio (un pollo arrostito ripieno di zabaione e confetti argentati), o un Placafame, un involtino di prosciutto con salame crudo, cetrioli, olive, tonno e sottaceti, tenuto chiuso da acciughe, fette d’ananas e burro. Da bere? Una polibibita. Fra un Diavolo in tonaca nera (succo d’arancia, grappa, cioccolata e uovo sodo) e una Giostra d’alcool (barbera, cedrata, campari e un quadrato di formaggio e cioccolato), c’è l’imbarazzo della scelta.

Sorprendentemente, i futuristi non disdegnavano il dessert, ovviamente ribattezzato in peralzarsi, quindi avremmo potuto concludere l’esperienza con un Paradosso primaverile. La formula di Prampolini prevede «un grande cilindro di gelato alla crema che porta in alto, come vegetazione di palme, banane sbucciate. Tra le banane sono nascoste uova sode senza tuorlo, riempite di marmellata di prugne».

Nonostante tutta questa rivoluzionaria inventiva la Taverna del Santopalato non fu accolta con particolare entusiasmo da critici e avventori e fu costretta a chiudere i battenti nel 1940.

Daniela Carrabs

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