
I giudici dell’Aja hanno finalmente messo la parola “fine” alla lunga vicenda giudiziaria che iniziò nel lontano luglio del 1995. L’8 giugno 2021, per l’ennesima e ultima volta, è stata confermata la pena dell’ergastolo per Ratko Mladic, il generale serbo-bosniaco che nell’ambito della Guerra in Bosnia ed Erzegovina (1992-1995) si macchiò di crimini che gli sono valsi il triste appellativo di «macellaio di Bosnia».
Tutto ebbe inizio il 29 febbraio del 1992: in Bosnia si svolse il referendum per l’indipendenza bosniaca dalla Jugoslavia, il cui testo fu il seguente: “Sei per una Bosnia ed Erzegovina sovrana e indipendente, uno stato di cittadini uguali, il popolo della Bosnia ed Erzegovina – musulmani, serbi, croati e membri di altri popoli che vivono in essa?”.
Va preliminarmente chiarito che la popolazione della Bosnia ed Erzegovina è storicamente costituita da tre gruppi etnici: i musulmani bosniaci (i cosiddetti bosgnacchi), i serbi (serbo-bosniaci) e i croati (croato-bosniaci, di religione cattolica).
Ebbene, il leader del Partito Democratico Serbo, Radovan Karadzic, nel 1992 invitò i serbi a non andare a votare: «L’indipendenza – proclamò – porterebbe i serbi a diventare una minoranza nazionale in uno Stato islamico». Nonostante questo, l’affluenza alle urne fu alta e il 99,7% dei votanti si espresse a favore dell’indipendenza: dal 6 aprile la Bosnia fu indipendente.
Nel luglio del 1995, sotto la totale e controversa inerzia delle forze dell’ONU, l’esercito serbo-bosniaco, guidato dal generale Ratko Mladic, attuò uno spietato atto di pulizia etnica, tristemente noto come “massacro di Srebrenica”. Tutti i maschi bosgnacchi tra i 14 e i 78 anni furono separati da donne e bambini, fucilati e seppelliti in fosse comuni. Il bilancio fu tragico: 8000 morti.
All’indomani del dicembre del 1995, quando l’accordo di Dayton pose fine al conflitto, il generale Mladic fu accusato per la prima volta e iniziò la sua latitanza. Solo nel 2011 fu arrestato e consegnato al Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (TPIJ). Il compito di quest’organo giudiziario delle Nazioni Unite fu quello di perseguire i crimini commessi nell’ex Jugoslavia negli anni Novanta.
Nel 2017, dopo aver ascoltato oltre 500 testimoni ed esaminato oltre 10mila elementi di prova, il Tribunale emise la sentenza di primo grado: Mladic fu condannato all’ergastolo per il massacro di Srebrenica (qualificato come genocidio), per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in altre parti della Bosnia dal 1992 al 1995. Con questa condanna, il TPIJ concluse dopo 24 anni la sua attività.
Per questo motivo, il ricorso in appello di Mladic è avvenuto dinanzi al Meccanismo residuale dell’Onu per i tribunali penali internazionali (MTPI), organo che ha di fatto sostituito il TPIJ. Questo ricorso ha rappresentato, per i sopravvissuti e per i parenti delle vittime, un doloroso obbligo a rivivere la disumanità e le spietatezza degli anni di guerra. Dolore che, però, non è stato vano: l’8 giugno 2021, con sentenza definitiva, i giudici hanno confermato la condanna di Mladic all’ergastolo per il genocidio di Srebrenica.
Nils Muiznieks, direttore di Amnesty International per l’Europa, ha dichiarato: “Con questa sentenza storica si concludono decenni di ricerca della giustizia per le decine di migliaia di vittime del conflitto in Bosnia, dove, per quanto riguarda l’Europa, sono stati commessi i più gravi crimini di diritto internazionale dopo la Seconda guerra mondiale”. Non solo. Questa sentenza, oltre a riguardare le responsabilità individuali per il passato, sancisce una verità storica che tutt’oggi alcuni movimenti nazionalisti bosniaci tentano di confutare, con atteggiamenti negazionistici.
Per la Bosnia, un paese ancora fortemente diviso, questo esito rappresenta dunque un fondamentale auspicio alla conservazione della memoria storica e alla sua trasmissione alle future generazioni.
Marta Savoretto