La morte è un aspetto del reale, è intrinseco alla vita. La morte è normale, un’aura che impregna la nostra esistenza e ci ricorda della la nostra fragilità, precarietà, finitudine. Ma quando arriva prima del previsto, inattesa nel suo smembrare i cerchi perfetti della nostra routine, non è mai facile: diventa inaccettabile.
Aveva 10 anni la bambina di Palermo ritrovata in fin di vita con una cintura al collo. la ricostruzione dell’evento è ancora incerta. A predominare è l’ipotesi della blackout challenge che avrebbe coinvolto una nicchia di tik tok in una sfida all’ultimo respiro. Il social è stato momentaneamente bloccato a tutti gli utenti la cui età non è accertata. Infatti il suo utilizzo sarebbe vietato ai minori di 14 anni, vincolo purtroppo facilmente eludibile. Un po’ come per Facebook: chi ricorda la falsificazione della propria data di nascita per iscriversi alla piattaforma?
Ritornando al tragico evento, emergono alcune questioni che provocano scalpore e dibattiti: chi o cosa è ritenuto responsabile, la narrazione predominante e la spettacolarizzazione del dolore.
La questione della responsabilità
La vittima viene descritta come una ragazzina “social”, ritenuta gioiosa e responsabile dai genitori. Viene tratteggiato un quadro familiare sereno e trasparente dove non manca la comunicazione. Forte è la tentazione di attribuire la responsabilità ai genitori ritenuti “poco attenti” e ingenui nei confronti della figlia, ma sarebbe una risoluzione superficiale e irrispettosa nei confronti di una situazione dolorosa e delicata.
Ritenere colpevole il social e l’uso inappropriato che spesso se ne fa suscita accese controversie: chi ne usufruisce afferma che le linee guida della piattaforma sarebbero sufficienti ad arginare fenomeni di questo tipo.
L’indagine è ancora parziale, ma un dato deve essere chiarito: questa è l’epoca del digitale e la nuova generazione vive in una realtà filtrata e irretita dal web. Avere anche più di un profilo social è abbastanza diffuso anche tra i più piccoli. Inoltre la condizione di isolamento ha accelerato un processo già rapido e pervasivo: la tecnologia è indispensabile e rappresenta uno strumento non solo utile, ma anche un diversivo per evadere dalle mura domestiche, creando e mantenendo rapporti che non potrebbero essere “fisici” in questo momento storico. Inoltre la rete, essendo specchio del reale, si dipana in tutta la sua complessità implicando percorsi tortuosi, pericolosi e che sfuggono al controllo e alla supervisione degli adulti nei confronti dei bambini. Tutto ciò non può essere banalizzato, i ragazzini “navigano” ormai tutti agevolmente e liberamente. Questo mondo parallelo e imponente richiede con urgenza regole e limiti più definiti e sicuri.
La narrazione attuale
Le testate giornalistiche tendono a colorire ed enfatizzare il discorso che vira verso la pietà, il dolore. La morte è spettacolarizzata, il riflettore è puntato sullo struggimento delle persone coinvolte invadendo il privato in modo intrusivo e potente. Questi eventi non possono rimanere celati nel silenzio proprio per la problematicità, le crepe e i “gap” sociali che rendono evidenti. Ma il dolore per una morte ingiusta, ma ancora poco chiara nelle sue dinamiche deve essere rispettata e trattata con una certa discrezione.
La fine della nostra vita è un evento naturale, ma renderlo eclatante, vestirlo di abiti tragici non fa che fomentare la paura e alimentare quell’atmosfera di “eccezionalità” che si crea attraverso questo tipo di narrazione.
D’altronde, della morte “normale” non si parla e, quando lo si fa, si racconta quella violenta, eclatante, fin troppo cruda con una veemenza che sfiora quasi il romanzesco.
Arianna Guidotto
PERCHE’ TUTTO QUESTO?
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