Le parole sono importanti. Ad esempio, se dicessi: “campo di concentramento”, cosa provereste?
Se invece dicessi: “campo di rieducazione”? O ancora: “campo di lavoro”? Forse queste locuzioni suonano meglio?
Per fortuna sono solo brutti ricordi di un passato lontano, roba da libri di storia.
Eppure, sta succedendo. Ora. In questo momento. Mentre siete seduti alla scrivania o mentre ordinate un caffè al bar, mentre aspettate il bus e mentre dormite. Sta succedendo in Cina e succede da diversi anni, in realtà.
Nella parte nord-occidentale del paese, al confine con Mongolia, Russia, Kashmir e Kazakhstan, si trovala regione dello Xinjiang. 21 milioni di abitanti sparsi su una superficie che potrebbe contenere comodamente Italia, Francia e Germania: un territorio immenso abitato da una popolazione che fatica a sentirsi cinese. La regione infatti è popolata per la maggior parte non dagli Han, l’etnia principale della Cina, ma dagli uiguri. Questi ultimi, musulmani e culturalmente lontanissimi da Pechino, hanno sempre avuto un fortissimo senso indipendentista. Lo Xinjiang però, sia in ragione della sua posizione strategica che delle sue risorse naturali, è parte integrante della Cina da decenni.
Negli ultimi anni, il sentimento di autonomia della regione ha iniziato a preoccupare il Partito, che, come risposta alle spinte centrifughe, ha cominciato da diversi anni un’opera di “educazione” della popolazione. Nascondendosi dietro la giustificazione che gli uiguri siano un popolo dedito al terrorismo islamico – e quindi potenzialmente pericolo per l’integrità e la sicurezza dei cittadini – Pechino ha iniziato a prelevare e condurre milioni di uiguri in complessi di “trasformazione tramite educazione”.
Fino a oggi il governo centrale cinese aveva sempre rigettato le accuse di violare i diritti umani, sostenendo che questo fosse un progetto per contrastare il separatismo e l’estremismo religioso, in “centri di formazione” volontari e rieducativi. Tuttavia, nei giorni scorsi il New York Times è riuscito a entrare in possesso, grazie a una fonte anonima, di oltre 400 pagine di documenti segreti del Partito Cinese, che contengono discorsi di personalità politiche cinesi, rapporti di sorveglianza, report dei diversi centri di educazione, metodi di educazione, ecc…
Questo leak di documenti, già passati alla storia come Xinjiang leaks, rischia di avere diverse conseguenze: in primo luogo, è da assumere come prova definitiva dell’esistenza di questi centri e del tenore di tale programma di rieducazione. In secondo luogo, forse ancora più importante, è da sottolineare il fatto che queste 400 pagine siano arrivate da un esponente del Partito stesso.
Se infatti negli ultimi anni Xi Jinping aveva goduto di un consenso quasi unanime (o per lo meno, questa era l’impressione che trapelava dall’esterno, da oltre diecimila chilometri di distanza), questa fuga di notizie fa sospettare che vi siano delle nuvole in paradiso: la possibilità che vi siano correnti alternative a quella di Xi ha procurato tanto scalpore quanto il contenuto dei documenti stessi.
Le parole hanno un peso e nei Xinjiang leaks compaiono svariate volte i termini “virus”, “infezione”, “estirpare”, fino ad arrivare all’espressione “assolutamente nessuna pietà”. Fortunatamente diversi paesi hanno condannato la condizione dei detenuti nei centri di educazione, chiedendo alla Cina di rispettare il diritto internazionale e i diritti umani della popolazione locale, richiedendo immediato accesso ai centri interessati dallo scandalo. Ad oggi le richieste del mondo sono apparse inascoltate, ma rimane la speranza che la comunità internazionale riesca a spingere la Cina a una risoluzione della situazione.
Luca Negro
Per chi fosse interessato all’argomento, segnaliamo due articoli (uno in italiano e uno in inglese) e un video-documentario di VICE News in collaborazione con HBO.