2019. Siamo nel pieno del futuro, per così dire. Ci sembra di aver sormontato ormai le criticità più gravi, le ingiustizie più astruse, ci sembra di essere all’apice della “civiltà”.
Le lotte per i diritti civili non fanno più notizia, né tantomeno coloro che sono soggetti ad iniquità. I movimenti femministi sono concepiti come esagerati, superflui, ci danno noia. Essere femministe è passato di moda, sono viste come nostalgiche di un qualcosa che non ha più senso di essere, nella nostra oasi occidentale. Insomma, abbiamo ottenuto il diritto al voto, ci è stata concessa una breccia nel mondo del lavoro. Adesso si può addirittura essere una mamma single o non volere figli affatto. A patto di essere giudicate e boicottate dalla cospicua comunità cattolica.
La nostra generazione si è trovata un po’ così, buttata in una società prefabbricata, a godere di conquiste date per scontato e sulle spalle un bagaglio di preconcetti in eredità.
Le cose sono cambiate, la mentalità umana evoluta. È tutto cambiato al punto che se si prende in mano il saggio di Erving Goffman che si focalizza sul tema del confronto di genere, The arrangement between the Sexes pubblicato nel 1977, ci sembrerà un’analisi della società odierna.
Goffman riconosce che le differenze sessuali (biologiche) esistono, ma non sono in sé sufficienti a spiegare le conseguenze che producono nella e sull’organizzazione sociale, ovvero l’indiscussa, olistica dominazione dell’uomo. Bisogna tracciare una netta distinzione tra sesso e genere, laddove sulla base del primo – concetto biologico – le società elaborano il secondo attraverso diverse aspettative socio-culturali imposte agli individui in base alla “classe sessuale” di appartenenza. (Ed ancora diversa è la nozione di “identità di genere”, che ogni individuo coltiva ed elabora arrivando a definire chi è effettivamente.)
Le situazioni sociali vengono predisposte a priori per valorizzare queste differenze, ergendo palcoscenici che portano le persone ad adempiere necessariamente al ruolo di genere che è stato loro assegnato e che nel suo compimento trova la propria legittimazione.
E non è forse questo che accade ancora oggi? Si potrebbe dire in modo più discreto rispetto al passato, certo, ma la sostanza rimane. Viviamo ancora in una realtà dove la stragrande maggioranza dei leader, rappresentanti del popolo, sono uomini. Uomini che si ritrovano spesso, ancora adesso, a prendere decisioni su questioni che riguardano strettamente le donne e in cui queste ultime si ritrovano a non avere voce in capitolo. Basti pensare all’aborto, alla fecondazione assistita o all’adozione da parte di coppie di donne, le tasse da lusso su assorbenti e rasoi.
La donna si ritrova ad incarnare un ruolo ambivalente, perché da un lato “il sesso debole” e dall’altro “il gentil sesso”. Due formulazioni con due accezioni diverse per descrivere due facce della stessa medaglia. La donna è sì più debole ma, secondo un’antica tradizione di galanteria, proprio per questo è compito dell’uomo proteggerla dal mondo che non sarebbe in grado di affrontare da sola. Una vecchia idea che per quanto si possa dichiarare superata persiste, implicitamente. Sarà forse per questo che gli uomini al potere prendono decisioni al posto nostro? Perché siamo troppo emotive per prendere decisioni? Per essere al potere? Basti pensare alle frasi che vengono scritte sugli assorbenti per convincerci che questa rappresentazione della donna non sia cambiata.
Per tornare a Goffman, la questione fondamentale che si pone diventa: è possibile “decostruire” tali differenze sociali, equalizzando i generi e superando finalmente la rappresentazione di donna come una categoria svantaggiata e dunque su un piano “antropologicamente” e socialmente diverso da quello degli uomini?
Come molte altre questioni di questo tipo, rispondere a questa domanda è complicato. Questo non significa accettare le cose come ci vengono date. Per far sì che effettivamente si possa procedere nella giusta direzione, che effettivamente si possa sentire la differenza tra ieri e oggi, bisogna persistere nel far sentire la propria voce, ma soprattutto praticare solidarietà. Perché non basta battersi per i diritti delle donne, o delle operaie o delle donne di colore. Bisogna battersi per l’equità e parità di diritti indipendentemente dalla propria identità riconosciuta socialmente. Più ci si divide e più sarà difficile raggiungere un obiettivo comune.
Yulia Neproshina