50 sfumature di curry

Un vasetto di curry – anche se, in realtà, magari non ci piace nemmeno – ormai lo abbiamo tutti in cucina; o, al contrario, il suo sapore ci è diventato talmente familiare che un pochino lo aggiungiamo comunque, perché sicuramente darà alla nostra ricetta “un ché di etnico”.

Fino a pochi anni fa, in Italia, spezie come il curry, la curcuma, la radice di zenzero erano per lo più sconosciute (il fatto che un nonno lo compri pensando si tratti di una rapa, lo grattugi poi abbondantemente nel minestrone, rendendolo una bomba per il palato, non dovrebbe quindi sorprendere). Oggi invece, non è difficile trovarle al supermercato, aggiungerle in pentola, nelle tisane, addirittura tentare di coltivarle fai-da-te in casa.

In realtà in origine curry sta a indicare una gran varietà speziata: non solo ogni famiglia potrebbe possedere la propria miscela di “curry” (non a caso nota come masala, ossia miscela, di spezie); in più, possono variare ogni volta gli ingredienti (cannella, chiodi di garofano, curcuma, zenzero, peperoncino, cumino, coriandolo ecc.), in quanto ciascun “curry” o masala è associato a uno specifico piatto: che si tratti di carne, pesce, pollame, verdure, riso. Sfogliando il menù di un ristorante indiano, ci si accorge della varietà di portate che includono uno di questi due termini, così che – provando a ordinarli tutti, per assaggiarli – ci si renderebbe conto delle sfumature diverse fra il gusto speziato di ognuno di essi.

L’origine della parola “curry”, infatti, è una storpiatura che gli inglesi – appassionatisi dei sapori scoperti colonizzando i paesi indiani – hanno creato per indicare uno specifico gusto, che decidono di importare in patria. Un’impresa invero difficile, poiché non solo coltivare alcune determinate piante, da cui le miscele sono composte, è praticamente impossibile per il clima freddo dell’Inghilterra, ma soprattutto i masala contengono una parte di ingredienti freschi e macinati– radice di zenzero, curcuma, aglio – che li rendono appunto delle “paste” deperibili durante il trasporto; ben diverse, insomma, dal nostro eterno barattolino in cucina.

Si dice che a ingegnarsi siano stati un mercante di Mumbai e un commerciante della Compagnia delle Indie, che sottrassero la componente umida dalla miscela, la quale potrà poi essere aggiunta una volta esportata nelle cucine europee. Il “curry” che conosciamo noi, si potrebbe dire comunque abbastanza uniformato: gli inglesi infatti si innamorano e importano il kari masala del Tamil Nadu, principalmente a base di foglie di Murraya koenigii, o kari. Proprio così: “curry” non indica altro che le foglie di un particolare albero, il kari (मुराया कोएनिजी); se ne può scovare una confezione curiosando nelle botteghine di pakistani e indiani sparse per Torino. Sempre in questi negozietti, ci si accorge della miriade di preparati di spezie – ognuno con l’immagine di un piatto differente sul pacchetto – che farà sembrare così scialbo e insipido il gusto del nostro barattolino di curry. L’invito è quindi a fare incetta di questi preparati, così come dei “curry” in pasta che in genere si aggiungono a una base di pomodoro, yogurt, panna o latte di cocco, per poi immergersi  nella ricerca su internet delle ricette da riprodurre.

In questo modo – sebbene non tutti amino la cucina indiana, o quella thailandese, giapponese, cingalese e tutte quelle asiatiche, che di tali spezie fanno un grande uso –sicuramente vi sarà, in mezzo a tutta questa effettiva varietà, il “curry” o masala che fa per ognuno di noi, per sostituire finalmente quel barattolino stantio in cucina.

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Alice Tarditi

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