Uno degli aspetti più interessanti e controversi nel dibattito videoludico moderno attiene alla difficoltà che devono avere i videogiochi. Dopo un periodo a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 in cui i titoli richiedevano molta abilità per essere domati al meglio, si è passato dagli inizi degli anni 2000 a rendere più facili, semplificati e quasi docili la maggior parte dei giochi. La popolarità delle console aveva aperto il videogioco ad un pubblico vasto ed eterogeneo, e si era sentita la necessità di semplificare la maggior parte dei giochi per non restare un medium di nicchia o per pochi eletti. Attenzione però, il nostro è un discorso di carattere generale: i giochi difficili sono sempre esistiti, così come quelli più casual e meno impegnativi.
A partire invece dal 2009 si è riscontrata una particolare inversione di tendenza. Alcune produzioni (soprattutto nipponiche) ebbero il coraggio di pensare che il pubblico potesse essere sufficientemente maturo per affrontare un grado più alto di sfida.
In questa cornice si inserisce il ritorno in auge del genere roguelike. Pur essendo uno dei generi più antichi, la sua popolarità aveva risentito della diffusione del videogioco ‘accessibile’, ed era finito nel dimenticatoio.
I roguelike discendono tutti da un gioco del 1980 chiamato Rogue (da cui il nome del genere). Pur avendo quasi quarant’anni, tutte le caratteristiche fondamentali dei suoi discendenti erano già presenti: action/platform in 2D, caratterizzati da un alto livello di sfida e che richiedono molta abilità per essere domati, con livelli generati proceduralmente e in maniera casuale, dove il giocatore ha l’obiettivo di superare i dungeon per arrivare alla fine. In aggiunta a ciò, la caratteristica principe del genere risiede nel permadeath, la morte permanente: avete condotto una partita quasi perfetta fino alla fine, ma a pochi passi dal boss finale commettete una sciocchezza e morite? Fatti vostri, fine della partita, GAME OVER, dovrete ricominciare tutto daccapo e perderete tutti gli oggetti e i bonus ottenuti sino a quel momento.
Immaginate di essere una casa di videogiochi e di aver puntato tutto su un nuovo gioco roguelike: se la maggior parte dei videogiocatori gioca per distrarsi e rilassarsi, questo sistema così punitivo non dovrebbe nuocere alle vostre vendite? In teoria sì, ma i numeri sembrano contraddire questa logica.
Negli ultimi otto anni si contano decine e decine (se non anche centinaia) di titoli roguelike, alcuni dei quali hanno venduto tanto da diventare pietre miliari del gaming moderno: Rogue Legacy, The Binding of Isaac, Don’t Starve, Spelunky, Faster Than Light, solo per citarne alcuni.
Quindi come ci spieghiamo questo comportamento? Che siano impazziti i giocatori, tutti colpiti da un’epidemia di masochismo? Che godano nel perdere, nella difficoltà, nell’insoddisfazione?
La migliore spiegazione plausibile è da ricercare nel fatto che il videogioco è un’arte matura ormai, come anche i suoi fruitori: vi sono giochi e giocatori casual, come vi sono anche produzioni che spingono su un livello di difficoltà maggiore. Al netto della frustrazione e dei controller rotti per la rabbia, padroneggiare un videogioco che presenta un alto livello di sfida può rivelarsi un soddisfazione che giustifica qualche maledizione bisbigliata a denti stretti.
Luca Negro