Il 23 maggio in Italia viene associato ad un solo anno, il 1992: anno di terremoti veri e propri, culminati – o forse generati – da una strage che ha sventrato non solo l’autostrada che porta dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, ma l’Italia intera.
La storia che ha portato a questa strage è, purtroppo, anche una parte della storia d’Italia su cui è stata fatta ancora troppa poca luce. Il 30 gennaio dello stesso anno la Corte di Cassazione, per la prima volta nella storia del nostro paese, conferma tutti gli ergastoli a cui erano stati condannati in primo grado i maggiori boss di Cosa nostra. Il Maxiprocesso venne istruito da un pool composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe di Lello, coordinati dal Procuratore Antonino Caponetto.
Proprio di quest’ultimo fu l’idea di fare contro la Mafia a Palermo quello che il Procuratore Caselli faceva a Torino contro il terrorismo. Un magistrato che lavori da solo a casi di criminalità mafiosa è un bersaglio troppo facile: può essere intimidito, minacciato, persino ucciso; ma se più magistrati lavorano insieme su un fenomeno così complesso, allora le notizie vengono concentrate, condivise ed analizzate con risultati migliori e più completi.
Il Maxiprocesso, iniziato nel 1986 e conclusosi quel 30 gennaio, ha visto alla sbarra 475 imputati a cui vennero distribuiti più di 2000 anni di carcere totali. Grazie ad esso per la prima volta la Mafia venne giuridicamente condannata.
Ma Cosa nostra non era disposta a cedere: nella Commissione regionale e provinciale di Cosa nostra vennero decisi i nomi di coloro che avrebbero pagato per queste condanne. Venne creato un elenco, principalmente formato da politici (come l’allora Ministro di Grazia e Giustizia Martelli, Andreotti, ecc), poi successivamente cambiato: i nomi dei politici sparirono, anche se non tutti, e altri nomi presero il loro posto.
Tra l’aprile e il maggio dello stesso anno Salvatore Biondino, Salvatore Cancemi e Raffaele Ganci, capi dei loro mandamenti, fecero diversi appostamenti lungo l’autostrada A29, all’altezza di Capaci, per individuare il punto migliore per il loro piano. Negli stessi giorni furono molte le riunioni a scopo organizzativo: bisognava trovare dove nascondere l’esplosivo, il quantitativo giusto, i punti più adatti per appostarsi, testare i detonatori e studiare i movimenti delle Fiat Croma blindate su cui la vittima designata, Giovanni Falcone, si sarebbe trovata.
La partecipazione mafiosa a questo attentato fu ampissima: Totò Riina, Salvatore Cancemi, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, La Barbera, Santino di Matteo. Tutti lo volevano morto.
Non si sa ancora chi abbia fatto la soffiata sul ritorno di Falcone da Roma (dove viveva e lavorava presso l’Ufficio Affari penali del Ministero) a Palermo. Ciò che si sa è che quel 23 maggio 1992 Domenico Ganci, figlio di Raffaele, fece due telefonate per avvisare che le tre Fiat Croma erano partite da Palermo in direzione dell’aeroporto; dopodiché ci furono altre telefonate per avvisare che il giudice Falcone era effettivamente atterrato e che le macchine blindate stavano ripartendo.
Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e Giuseppe Costanza non lo sapevano: loro erano lì, divisi in quelle tre macchine che percorrevano l’autostrada A29 e non avevano idea di cosa sarebbe successo.
Non sapevano che La Barbera era appostato in una stradina laterale all’autostrada; non sapevano fosse al telefono con Gioè, che si trovava insieme a Giovanni Brusca sulle colline di Capaci ad attendere. Attendere cosa? L’arrivo di quelle tre vetture blindate.
Il giudice, sua moglie e tutti i ragazzi della scorta non lo sapevano, ma sotto l’autostrada, all’altezza di Capaci, c’erano circa 200 kg di tritolo, che Brusca avrebbe fatto scoppiare premendo il tasto del detonatore nel momento esatto in cui loro ci sarebbero passati sopra.
200 kg di tritolo, un’autostrada sventrata e cinque morti. Quel giorno morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, sua moglie, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Sono morti e nel carcere l’Ucciardone di Palermo si è festeggiato, sono morti e il Parlamento ha eletto immediatamente il nuovo Presidente della Repubblica. Sono morti e l’Italia si è fermata con loro.
Quello che ci resta, oltre alle indagini e ai processi per la strage, è lo sgomento, la paura e le bombe che da lì a 57 giorni insanguineranno ancora Palermo e, nel 1993, l’Italia. Quello che ci resta è il dolore nel vedere cinque vite spazzate via, perché facevano il proprio lavoro e lo facevano bene. Quello che ci resta è anche la consapevolezza che lottare, essendo onesti e con gli occhi aperti, anziché sordi al mondo intorno a noi, sia quanto di più importante si possa fare.
La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.
Giovanni Falcone
Cecilia Marangon