Mi chiamo Hajar e sono nata in Marocco

Mi chiamo Hajar, ho 20 anni e sono nata a Casablanca, in Marocco. Nel 1989 mio padre è arrivato in Italia per cercare lavoro, quattro anni dopo ha sposato mia mamma e nel ’94 sono nata io. Da allora tutte le estati tornava a casa per stare con noi, ma io l’ho sempre visto come un estraneo, come un parente che ci veniva a trovare una volta all’anno e stava con noi un mese. Non lo chiamavo nemmeno “papà” perché non lo riuscivo a considerare tale: quando finalmente iniziavo ad affezionarmi a lui, ecco che doveva di nuovo andarsene. Perciò nel 2001, quando avevo otto anni, io e mia madre abbiamo deciso di raggiungerlo in Italia. Ricorderò sempre quel lunghissimo viaggio in pullman e il paesaggio dal finestrino cambiare mano a mano che ci allontanavamo dalla nostra città: le case erano totalmente diverse, l’ambiente era meno caotico e molto più sereno; anche il modo in cui le persone interagivano tra loro era cambiato (a voi può sembrare una banalità, ma vedere per strada coppie che si baciavano o si tenevano la mano per me era una cosa fuori dal comune!). Per fortuna si è concluso tutto con un lieto fine: io e mio padre abbiamo cercato di recuperare il tempo perduto, sono nati i miei tre fratelli e siamo tornati ad essere una vera famiglia.

Ci siamo, quindi, stabiliti in un piccolissimo paesino nella provincia di Torino e siamo stati molto fortunati ad aver trovato persone che ci hanno aiutati, che non ci hanno mai fatto sentire “diversi”, che non hanno mai ritenuto questa diversità una mancanza: sono riusciti a vivere e a farci vivere la nostra diversità come una risorsa. Oggi sento di dover restituire nel mio piccolo tutto l’aiuto che mi è stato dato, trovando, grazie alla mia esperienza, punti di unione e di integrazione tra le culture straniere e quella italiana. Studio, infatti, mediazione culturale all’Università di Torino e sono volontaria presso l’ASAI (Associazione di Animazione Interculturale) che ha diverse sedi sparse per la città.

immigratigrandeMio padre non ha avuto grosse difficoltà ad integrarsi e a trovare un lavoro, ma ventisei anni fa era tutto diverso: nel corso degli anni le tipologie di migranti sono cambiati e insieme a loro è mutato il modo di viaggiare. Oggi i media e i politici parlano continuamente di immigrati clandestini che affrontano viaggi assurdi in mare, ammassati in centinaia su barconi striminziti e che (quando non muoiono in mare e riescono a giungere sulle nostre coste) ci stanno “invadendo”. Secondo l’Eurostat, gli immigrati in Italia sono il 9,5% della popolazione, cifra non così alta come si vuole far credere se paragonata all’11,2% della Grecia, l’11,5% della Francia, il 12,3% di UK, il 12,4% della Germania e il 13,2% della Sagna. Nonostante ciò è impossibile negare come l’Italia sia diventata meta di continui sbarchi di migranti, i quali sono aumentati del 60% rispetto al 2014 a causa dell’aggravarsi della situazione socio-politica in Africa del nord e in Arabia. Quello dell’immigrazione è un problema così grande e complesso che l’Italia non può più pensare di riuscire a risolverlo con le sue sole risorse: grazie all’immenso lavoro della marina militare italiana molte vite sono state salvate, ma è ormai necessario l’intervento ausiliario di tutta l’Unione Europea. Ciò che mi fa rabbia è che, oltre a parlarne per racimolare voti, chi dovrebbe occuparsi di risolvere la questione non sta facendo concretamente nulla per evitare che altri esseri umani muoiano in mare.

Immagine232Meno di cent’anni fa treni stracolmi trasportavano ebrei totalmente ignari nei campi di concentramento e noi rimanevamo a guardare. Oggi barconi stracolmi trasportano siriani, libici, algerini, senegalesi, camerunensi, marocchini, egiziani disperati verso morte (quasi) certa in mare aperto e noi rimaniamo a guardare. Deve verificarsi un secondo olocausto prima che venga fatto qualcosa di concreto? Il problema di fondo in entrambi i casi è che si è persa di vista la questione fondamentale: non sono ebrei, non sono migranti, non sono senegalesi, non sono marocchini, sono esseri umani.

Con molti di questi “esseri umani” ho parlato personalmente e le loro storie mi hanno colpita nel profondo.

La storia più coraggiosa di cui sono venuta a conoscenza è quella di Awa, donna senegalese costretta a fuggire dalla propria terra insieme alla figlia di pochi anni a causa di persecuzioni politiche. Le hanno caricate su un barcone insieme ad altre 500 persone e sono partiti per mare mettendo a disposizione per tutta la durata del viaggio solamente una tanica d’acqua e qualcosa da mangiare, ovviamente non sufficiente a sfamare tutti. Alla fine loro sono riuscite ad arrivare in Italia, molti altri non ce l’hanno fatta. Ciò che mi ha impressionata è stata la disperazione che l’ha spinta a scappare, mettendo a rischio non solo la sua vita, ma anche la vita della figlia ancora piccola. Awa adesso ringrazia infinitamente l’Italia, perché se fosse rimasta in Senegal, a quest’ora né lei né sua figlia sarebbero ancora vive.

Molto diversa è invece la storia di alcuni ragazzi di Casablanca miei concittadini: vivono in case di lamiera, in situazioni di grande povertà e vogliono lasciare tutto per venire in Italia ma, per ora, non ci sono ancora riusciti. Un viaggio per l’Italia senza garanzie, totalmente a rischio e in condizioni assurde a bordo di un barcone può arrivare a costare anche 4000 euro; inoltre può capitare di venire truffati dallo scafista, il quale si intasca i soldi e sparisce dalla circolazione senza che si possa far nulla per riaverli indietro. Il loro obiettivo è arrivare in Italia e cercare lavoro, ma non hanno un progetto preciso; più che altro sono attirati dall’immagine che i media marocchini passano dell’Italia facendola apparire la terra della salvezza. Si tratta di un tipo di immigrazione, a mio parere, sbagliato e per questo posso dirmi quasi sollevata che non siano riusciti a partire: una volta realizzato che l’Italia non è come loro si aspettano finirebbero a delinquere, ritrovandosi in una situazione peggiore di quella che vivono a casa loro e danneggiando il paese che li accoglie.

Io vivo in Italia da più di 10 anni e sono fiera di poter dire che, nonostante abbia origini marocchine, l’Italia è diventata casa mia a tutti gli effetti. Ho il vantaggio di appartenere, sia col cuore che per cittadinanza, ad entrambe le nazioni e proprio per questo, crescendo, ho sempre cercato di fare da mediatrice tra questi due mondi apparentemente così differenti.

Il mio sogno è che l’Italia riesca a diventare, un giorno, una enorme comunità formata da persone provenienti da tutto il mondo che convivono fra loro in totale armonia e sono convinta, perché l’ho vissuto sulla mia pelle, che l’integrazione fra culture diverse non solo possa avvenire, ma sia una ricchezza di cui non dobbiamo avere paura. Affinché ciò accada entrambe le parti in gioco, sia italiani che stranieri, devono liberarsi dalle paure e dai pregiudizi e aprirsi totalmente in un atteggiamento di accoglienza. Molti italiani si lamentano della presenza di stranieri in Italia e avranno sicuramente i loro buoni motivi per farlo, mentre io non potrei essere più felice di camminare per Torino ed assistere ad ogni passo all’incontro di culture apparentemente molto diverse fra loro, ma alla fine profondamente simili perché ugualmente umane.

tumblr_mlhtcnajHU1qz8w01o1_500«Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere. Credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, che è la famiglia umana.»
Vittorio Arrigoni

di Irene Rubino

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