Questa nostra piccola diversità: Middlesex

Di Erica Bouvier

«Sono nato due volte: bambina, la prima, un giorno di gennaio del 1960 in una Detroit straordinariamente priva di smog, e maschio adolescente, la seconda, nell’agosto 1974, al pronto soccorso di Petsokey, nel Michigan.»

middlesexCosì inizia il suo racconto Cal Stephanides, con una voce che, fin dalle prime righe, fa sentire la sua identità, il suo grande e forte Io. È la strana storia della sua vita che Cal vuole narrare, ma per assicurarsi che la si possa capire interamente, riavvolge il nastro fino al lontano 1922, zoomando l’inquadratura su Bitinio, un piccolo paese greco sotto il dominio dell’Impero Ottomano. È lì, tra bachi da seta e nuvole di fumo turco, che Lefty e Desdemona, fratelli di sangue, sono nati e vivono.

E’ il 1922, come si è già detto, e la guerra tra Grecia e Turchia sconvolge il territorio, così i due fratelli decidono di fuggire in America. Ma è la guerra la vera causa della loro fuga? Cal affina l’obiettivo, catapultandoci in un Lefty intento a chiedere la mano di sua sorella, Desdemona. È questo – l’incesto tra quelli che poi sono i suoi nonni – il punto chiave di tutto il romanzo, il fulcro del racconto, che darà senso a quella che poi sarà la vita di Callie, nata a Detroit, in anni tormentati, proprio come la sua vita.
Il romanzo va avanti con quella che è la vita della piccola Calliope, figlia di Milton, prole di Lefty e Desdemona. La nonna, Desdemona, conosciuta per le sue capacità di predire il sesso di un feto, rimane incerta fino all’ultimo momento sul genere della sua nipotina. È un’ incertezza fin dagli inizi per Callie, che crescerà con la sicurezza di essere una bambina. A quattordici anni, però, Callie si innamora della sua migliore amica e  intraprende le sue prime esperienze sessuali, anche con l’altro sesso. Eugenides ci proietta nell’interiorità di una giovane adolescente, alle prese con la sua sessualità ed in cui, quindi, ci viene semplice identificarci. È il tormento di una ragazza il vero attore principale di questo romanzo, che indaga e scava senza pretese supponenti l’animo umano, portando a galla, quasi con ingenuità, le ansie di un periodo per chiunque complicato. Ma per Callie i problemi aumentano esponenzialmente quando, dopo un incidente d’auto, si scopre il suo ermafroditismo.

La penna di Eugenides è graffiante e coinvolgente, tanto da renderti impossibile togliere gli occhi dal libro, e racconta la storia di Cal con una comicità drammatica, che a volte riesce a stringere il cuore ed altre ad aprirlo totalmente. È la voce del Cal adulto, che ogni tanto si intromette nella linearità del romanzo, a commuovere il lettore, incapace di trattenere il sorriso di fronte a tanta umanità. Non è la storia di una diversità che Eugenides vuole mostrare, ma quella della diversità: sembra voler urlare a squarcia gola l’intrinseca eterogeneità della specie umana. E allora Callie/Cal diviene emblema di ciò che ognuno di noi fondamentalmente è: un diverso.
Il dottor Luce, da cui Callie entra in terapia, consiglia di intervenire per definire la sessualità della ragazza che, data l’educazione ricevuta, dovrebbe essere quella femminile. Ma Callie si oppone a questo tentativo di riportarla nella “normalità”, di nascondere il suo Io, quasi fosse un fatto vergognoso, e così scappa a San Francisco in autostop. Da questo momento in poi assumerà l’identità maschile di Cal e prenderà a lavorare in un club, in cui si esibirà come Ermafrodito, attrazione principale di uno spettacolo burlesque. È quasi il finale che tutti si sarebbero aspettati, da “uno così”, ma non è quello che Eugenides ha in mente ed infatti il romanzo continua con la morte del padre, Milton, e al ritorno a casa di Callie, riportata dalla polizia. È come se Eugenides volesse condannare le convenzioni sociali, perché sceglie l’ortodosso padre Mike per personificare l’antagonista, causa della morte di Milton e ingannatore. A questo punto potreste pensare che si tratti dell’ennesimo libro moralista, portavoce delle minoranze e schiacciatore dei più forti. No, non è questo il punto. Non è una situazione irreale, quella in cui Eugenides ci trasporta, tutt’altro: è una realtà estremamente fedele, un mondo che rispecchia alla perfezione quello in cui ci muoviamo ogni giorno, al punto che non fatichiamo ad immedesimarci nei drammi personali di Cal. È un inno alla diversità in quanto caratteristica principale e fondamentale dell’essere umano, non un goffo tentativo di prendere le difese di una piccola cerchia di persone. Il vero messaggio di questo romanzo sta nell’accettazione di sé, proprio come decide di fare Cal, spaurito dall’idea di rimanere un middlesex e capace di convivere con il suo Io, così com’è.
Ma la vera originalità di questo libro è la voce travolgente ed inconfondibile dell’autore, che sembra parlare ad ognuno di noi, con l’umiltà di chi sta raccontando il reale e nulla di più. Non c’è la superbia di analizzare la psicologia di un ermafrodito, ma sì quella di una bambina, di un adolescente, di una persona che potrebbe essere chiunque. È la storia di un qualunque e della sua personale diversità. Ed è questa la grande innovazione apportata da Eugenides, è questo che rende impossibile lasciarsi sfuggire un sorriso consapevole, all’ultima riga del romanzo. È la consapevolezza del fatto che ognuno di noi è una piccola ed individuale diversità, che ci rende ciò che siamo: straordinariamente umani.

 «Non credi che sarebbe stato più semplice restare com’eri?»
Alzai la testa e la guardai negli occhi: «Io sono sempre stato così.»

Le citazioni in corsivo sono prese da EUGENIDES, J., Middlesex, Mondadori, 2003.
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