Di Veronica Repetti
Il termine “capelli”, dal Latino, significa propriamente “peli del capo”.
Si tratta, in effetti, di estremità pilifere che ricoprono la cute del cranio: essi sono costituiti da proteine solide, quali la cheratina e la melanina, ma anche da acqua, lipidi e pigmenti.
I capelli si sviluppano sotto forma di lanugine già al quarto mese fetale e crescono a una velocità di circa 0,3 mm al giorno, nonostante dipenda molto dai soggetti, e pare maggiormente nelle ore comprese tra le 10 e le 11, ma anche tra le 16 e le 18.
Queste estremità sono le uniche parti del corpo, insieme alle unghie e alla barba, a continuare il proprio ciclo di crescita per tutta la durata vitale dell’individuo.
Sul cuoio capelluto la quantità di follicoli è determinata geneticamente dalla nascita. La densità, infatti, varia in base al colore: i biondi sono mediamente 150.000, i castani 110.000, i neri 100.000 e i rossi 90.000.
Chi conosce il detto ‘avere un diavolo per capello’, comprende ora che inferno avrebbe in testa se ciò fosse vero.
Originariamente, l’uomo era ricoperto di peli, poi, secondo le teorie evoluzionistiche darwiniane e non, ha cominciato a perdere la peluria sul corpo come difesa genetica contro germi e batteri, ma anche come adattamento all’utilizzo del fuoco e dell’abbigliamento. Fin dalla Preistoria, l’uomo, e soprattutto la donna, ha sentito il bisogno di adornarsi la chioma, tagliandola probabilmente con strumenti di silice e pietre taglienti. Sono stati ritrovati, inoltre, pettini e fermagli di osso e legno risalenti all’età neolitica.
I capelli, già allora, avevano assunto un significato religioso e venivano considerati sacri ed essendo ritenuti la sede dell’anima, venivano spesso sacrificati agli dei.
Successivamente, anche le prime civiltà, diedero una grande importanza alla loro capigliatura.
Gli Egizi, a partire dai faraoni e dalle donne più importanti della corte, ricorsero spesso all’utilizzo di unguenti (il ‘kiki’, come tramanda Erodoto) per arginare la caduta dei capelli o, comunque, per renderli più belli. La stessa Nefertiti pare ne facesse uso, soffrendo forse di alopecia (processo di diminuzione graduale dei capelli, la più comune calvizia), utilizzando una lozione a base di grasso di leone, ippopotamo, coccodrillo, gatto e altri animali non meglio identificabili. Nella terra delle sfingi e delle piramidi, inoltre, erano molto utilizzate le parrucche, come attestano il papiro di Harris e quello d’Orbiney, in cui figurano brevi poemi che esplicano il significato di tale usanza. Indossare la parrucca, infatti, era per loro simbolo di sensualità e disponibilità sessuale immediata.
Contemporaneamente, un altro popolo si andava sviluppando nella sua travagliata realtà: gli Ebrei.
Da sempre cari alle tradizioni e alla loro religione, si distinsero volutamente dagli Egizi, mantenendo nelle donne acconciature più sobrie e meno appariscenti, più conformi alla cultura ebraica. La Bibbia narra della storia di Sansone, il quale divenne famoso proprio per la sua lunga e folta chioma che mai avrebbe dovuto radere per non perdere la forza che gli era stata conferita. In base a questo, e all’esplicito passo biblico, i maschi ebrei ortodossi, tuttora, non si radono i capelli ai lati del viso, denominati ‘payot’, che significa, per l’appunto, boccoli o riccioli laterali.
Anche i padri della filosofia, nella loro origine greco orientale, si distinsero nelle capigliature, come testimoniano vari autori.
Erodoto, nella battaglia delle Termopili, riporta la particolare usanza degli Spartani, noto popolo guerriero, di pettinarsi e adornarsi le lunghe chiome appena prima della battaglia, come rito apotropaico e simbolo della loro potenza, determinata dalla lunghezza e dalla complessità delle acconciature.
Euripide, invece, nella tragedia le Baccanti tratta i capelli in maniera completamente differente. Dioniso, il vero protagonista dell’opera, viene presentato come un dio straniero e potentissimo, caratterizzato da lunghi riccioli che gli ricadono dolcemente sul viso. Ossimoro? Forse. Eppure Euripide, attraverso questa descrizione, riesce a mostrarci il lato ammaliatore di una chioma dorata come quella di un dio e ricca di boccoli, da sempre simbolo di seduzione, ma anche la complessità psicologica, vista la doppia natura divina, in parte benevola e in parte vendicativa e spietata. Le baccanti, ovvero le seguaci del dio, possedute da esso, sono menadi selvagge, dai lunghi capelli sciolti, liberi e folti, da sempre simbolo di estrema sensualità e coesione con la natura.
Callimaco, addirittura, negli Aitia, rende la capigliatura mito e leggenda, donandola alle stelle. Infatti, la Chioma di Berenice, attraverso l’uso della prosopopea, narra la sua storia, spiegando il voto che era stato fatto proprio da Berenice, moglie di Tolomeo, che si era tagliata i capelli, affinché il marito tornasse sano e salvo. Non trovandoli, dopo il suo ritorno, Conone, l’astronomo di corte, spiegò di averli avvistati in cielo, sotto forma di costellazione, che ancora adesso è denominata ‘Chioma di Berenice’.
Infine, anche nella cultura romana, i capelli assunsero un’importanza notevole.
Inizialmente, la cura dei capelli era affidata ai tonsores, professione praticata solo da coloro che provenivano dalla Magna Grecia, da poco conquistata. Successivamente, nelle famiglie patrizie, si sviluppò l’usanza di avere nella schiavitù le ornitraces, serve che venivano addestrate nella cura della capigliatura, scolpendo sul capo delle loro padrone le più intricate pettinature, con l’utilizzo di reticelle d’oro e di pietre preziose, di diademi, di fiori e anche di capelli finti.
Ovidio spesso trattò di capelli, definendo ‘vergognosa la mandria mutilata, vergognoso il campo senza grano, la foresta senza il fogliame e il capo senza crine’ e si preoccupò nei Medicamina faciaei feminae di rassicurare le donne di non vergognarsi se portavano parrucche, perché queste erano comunemente in vendita.
Anche Apuleio, nel libro II delle Metamorfosi, descrive la sensuale e voluttuosa chioma di Fotide, estendendo il discorso a ogni tipo di capigliatura e di bellezza. Spiega, infatti, che anche Venere, se fosse calva, al suo arrivo, non desterebbe l’amore di nessuno. Con l’avvento del Cristianesimo, nel periodo medievale e anche rinascimentale, il modo di acconciarsi i capelli subì grandi variazioni, rendendo ogni capigliatura più sobria e rigorosa: gli uomini privilegiarono tagli corti e tondi e le donne cominciarono ad avvolgere il capo in bende che celavano le chiome, proprio come fanno ancora alcuni ordini monastici.
In epoca feudale, le regine e le signore dell’alta aristocrazia, iniziarono a portare i capelli sciolti sulle spalle e spesso fermati da diademi.
Fu nel XVI secolo che le capigliature dei nobili divennero sempre più vistose, sfarzose ed esagerate, facendo essi spesso uso di parrucche spropositate sia maschili che femminili, incipriate e in costante, precario, equilibrio tra la moda e la decenza.
A questo proposito, Alexander Pope, uno scrittore satirico inglese, nella sua opera Il ricciolo rapito, trattò con ironia la nuova moda scaturita nell’ambito delle chiome inglesi.
Nell’800, molti scrittori italiani trattarono più o meno direttamente l’argomento della capigliatura, a partire da Alessandro Manzoni che, nel secondo capitolo de ‘I Promessi Sposi’, descrisse con accurata precisione la pettinatura nuziale di Lucia: i lunghi capelli neri erano spartiti a metà sul capo, formando una bianchissima “scriminatura”, e raccolti sulla nuca in numerose treccine, fermate da spilloni argentati, che quasi ricordavano un’aureola, delineano il personaggio angelico di Lucia.
Al contrario, nel capitolo nono, descrivendo la Monaca di Monza, enfatizza il ciuffetto ribelle che spunta dal velo nero, che avrebbe dovuto fasciare i capelli di ogni monaca, come previsto dai voti pronunciati. Ma, come apprendiamo da questo romanzo, non tutte le monache sono uguali e come non tutte riescono a frenare la propria personalità, così non tutte accettano di sacrificare una chioma altrettanto ribelle!
Verga, poi, con la novella ‘Rosso malpelo’, dà voce alle dicerie secondo cui chi aveva i capelli rossi era cattivo e di animo malvagio. Proprio intorno a questa credenza popolare si articola il racconto di questo povero ragazzo dai capelli rossi, incattivito dalla società che lo disprezza a prescindere e a cui non rimane più neppure un nome vero con cui chiamarsi, se non quello rappresentante la sua maledizione.
Nacque negli anni 60 del 1800 un movimento che prese il nome di “Scapigliatura”, sottintendendo metaforicamente proprio il verbo “scapigliare”, ovvero spettinare, che indicava una vita ribelle e disordinata, cioè quella che era stata intrapresa da coloro che aderirono a questo nuovo modello etico, inteso a rivoluzionare l’ormai trita e ritrita tradizione letteraria e non.
Ma, forse, più avanti, ci sarebbe stato ben altro contro cui combattere, piuttosto che cercare di distruggere un linguaggio italiano troppo aulico e ricercato: sarebbe infatti stato necessario imbracciare granate e fucili.
Scoppiarono le guerre. La prima e, poi, la seconda.
Con la seconda, i regimi totalitari mieterono centinaia di migliaia di vittime. Abbiamo una delle più importanti testimonianze letterarie della crudeltà, all’interno dei lager nazisti ,grazie al libro di Primo Levi.
Se questo è un uomo, nella sua trattazione pragmatica e imparziale, descrive gli orrori e le umiliazioni subite dagli internati e, tra queste, figura anche la totale rasatura del capo e dei peli sul corpo.
Levi asserisce ‘che facce goffe che abbiamo senza capelli!’ e ritorna a chiedersi perché è finito là dentro, ammassato nudo a uomini che non conosce. I nazisti, procedevano infatti alla rasatura completa dei prigionieri innanzi tutto per motivi igienici, visto lo scarso grado di pulizia che concedeva il campo di concentramento, ma anche e soprattutto per motivi socio-psicologici: l’uomo infatti, privo della sua chioma, in mezzo ad altri nella sua stessa situazione, si sente spersonalizzato e perso, non riuscendo quasi più a distinguere il proprio viso in mezzo a tanti altri, calvi e tosati come il suo.
Il ‘900, comunque, fu anche il secolo della rivoluzione totale del capello: a partire dagli anni ’20, vi fu la prima vera rivoluzione femminile. Le ragazze, per la prima volta nella storia, si tagliarono i capelli alla lunghezza designata per gli uomini, ottenendo la denominazione di ‘maschiette’ e nacque così il più comune taglio alla maschietta. Il mondo, appena uscito dalla prima guerra mondiale, risultava roseo sotto l’influsso americano, nei cosiddetti anni ruggenti e dava fiducia alle ragazze di poter cambiare la loro posizione nella società, di ottenere una vera libertà e di liberarsi dei luoghi comuni ormai obsoleti che venivano affibbiati alle donne, normalmente. In compenso, spesso, ne ottennero altri anche meno gentili, visto che predicavano una libertà, più che di pensiero, sessuale e di costume, puntata a valorizzare l’edonismo e l’effimero.
Con la famigerata rivoluzione giovanile del ’68, nacquero anche altri movimenti dalle caratteristiche molto diverse tra loro. Da una parte gli Hippy che vestivano in modo colorato, con strani abbinamenti nel vestiario e portando i capelli lunghi e incolti, ritenendo la coesione con la natura fondamentale per ritrovare la pace, definendosi addirittura ‘figli dei fiori’, un po’ come le Menadi di Euripide. Dall’altra parte, verso la metà degli anni 70, nacquero i Punk, che erano intenzionati a rifiutare qualsiasi genere di moda, creandone però involontariamente un’altra: essa era caratterizzata da jeans stretti, giacche di pelle, trucco pesante e anfibi colorati e non. I capelli dei Punk sono tra i più elaborati degli ultimi anni. Crebbe in fretta la moda di gestirli con forti dosi di brillantina o gel, per formare creste di dimensioni spropositate, fornite di punte di varia lunghezza e colore. Essi erano soliti radersi anche parti del capo.
Questi due movimenti, per quanto estremamente diversi tra loro, rappresentano lo stesso grido di aiuto: la ricerca di una libertà negata, l’insoddisfazione sociale, la disintossicazione dalle tradizioni.
E, per quanto questi siano stili particolarmente estremisti, non bisogna credere che ognuno di noi, anche storicamente parlando, come ho cercato di spiegare, non sia perennemente alla ricerca di se stesso proprio attraverso l’acconciatura di tutti i giorni.
E non parlo solo delle donne, nonostante su di loro sia più visibile l’influenza di un nuovo taglio di capelli sull’umore, proprio perché, appena uscite dal parrucchiere, la maggior parte delle volte, si sentono più sicure di loro stesse e hanno tendenza all’euforia. Mentre se la donna si sente i capelli in disordine, è tendenzialmente pessimista e poco propensa alla socialità.
Comunque, ciò, in realtà, vale anche per gli uomini, che spesso soffrono molto a causa della calvizie, nonostante, magari, lo diano meno a vedere.
Per Nietzsche, ad esempio, i capelli sono ‘come una leggera trama cui agganciare i propri pensieri spirituali, quasi fossero un filtro di separazione del materiale e dell’istintivo da quello che è spirito e anima’.
La capigliatura è a metà strada tra cultura e natura, fra pelle e vestiario: è un ornamento naturale e fondamentale, perché prolunga il nostro corpo, dalla nostra testa, sede della psiche, al resto del mondo, senza cui la nostra psiche sarebbe ben poco. Per questo, la chioma diventa fonte di intenso condizionamento ideativo, emotivo e affettivo, mezzo di comunicazione di messaggi non verbali, strumento di relazione e viene investita di significati particolari, sociali, religiosi e magico-mistici.
Nella sua canzone Capelli, Niccolò Fabi scrive: ‘(i capelli) sono la parte di me che mi somiglia di più’ e io credo che abbia ragione, almeno nel mio caso. E per quanto io spesso non sopporti la loro irriverenza, negligenza e originalità, so che sono miei e mi rappresentano, quindi preferisco accettarli così come sono, infatti, sempre come dice Fabi, ‘Sono uno di quelli che porta i suoi lunghi capelli per scelta e non usa trucchi, e voi levatevi la parrucca’. E ora, sperando di non avervi tediato troppo a lungo, diamoci un taglio.